martedì 2 luglio 2019

Altri compagni... (by Franco Ruinetti)

 




ALTRI COMPAGNI



Steve



'Mi punge vaghezza' è un'espressione fiorita che mi accende tanti scorci nella mente. La pronunciò Steve, un giovane mio coetaneo, una volta e mi sfugge a quale proposito. Steve: grande compagno. La vita lo ha lasciato presto, ma io no. E' spesso con me, quindi non si vede, ma non sono mai solo. Rivivo i nostri incontri, ripeto con lui virtualmente le ragazzate di quando ragazzi, almeno per l'anagrafe, non eravamo più. Rivedo quella volta allorché, per la festa del villaggio, provocò una baruffa. Insisteva per ballare con una biondina, ma il suo fidanzato focoso passò subito alle mani. Solo con l'intervento e la pazienza di un vigile senza la divisa si ristabilì la calma.

Steve era irrequieto, aveva smesso presto di studiare, la scuola, per lui, era una gabbia. Ma non cercò il paese dei balocchi, lavorò sempre: cameriere, pasticciere, infine autista. Percorse col suo autotreno, in largo e in lungo, tutta la penisola. E mi rimbalza nella mente quell'altra volta, quando m'incontrò mentre parlavo con una ragazza il cui nome, a vista, non le apparteneva. Si chiamava con il diminutivo, Assuntina, ma lei era grande e grossa, fuori misura.

Steve si fermò e ci invitò a salire sul suo mezzo.

“Per trasportare me, osservò lei, ci vuole proprio il camion.”

“Sei in cabina, come in una vettura, anzi in un salotto, non ti ho caricata sul cassone.”

Sostammo in un bar di periferia di un paese vicino e l'Assuntina ci rese pesante il caffè per le lamentele sulla sua abbondanza.

Questa ragazza per me era solo o poco più di una conoscente, la vedevo di rado. La ricordo perché, dopo una manciata di anni, anche più, mi colpì con una sorpresa. La riconobbi a fatica sul palco di una festa e figurava tra le reginette. Era diventata un pezzo di figliola incredibile, un bel fiore sbocciato in una primavera triste.

Il mio compagno non c'era già più, ma lo evocai e gli prestai i miei occhi.

Steve: lo sento ancora cantare, lo vedo nel vento delle parole. Le sue ottave rime erano sgangherate, gli endecasillabi si rattrappivano, la metrica tutta franava allo sbando. Così terminava un suo volo pindarico che di tanto in tanto rammento:

“... io ti amai, ti amai, ti amai

e poi piangei, piangei, piangiai.”

Soprattutto quando ondeggio nel silenzio mi vengono incontro anche altre rime e non so se sono tutte farina del suo sacco, ma poco importa: veleggiano nel sorriso.

Dopo che se ne è andato, ho saputo che è vissuto con un nome in prestito e in realtà si chiamava Gerardo. Forse quando è nato a nuova vita l'hanno ribattezzato. Ma fintanto che sarà con me resterà sempre Steve, non gli cambierò le generalità.




Il Poggio di Lino



Quando mi 'punge vaghezza' faccio delle scarpinate e meta delle escursioni è il Poggio di Lino. Non so perché quel rilievo orografico si chiama così, so perché ci vado volentieri. Una volta, per arrivare sopra la gobba della sommità, impiegavo circa un'ora, mentre adesso, col peso corporeo e con gli anni che sono aumentati, ci metto molto di più e ogni tanto mi fermo per riprendere fiato. Ci vado volentieri perché quel posto fu per me una scoperta e talvolta, alla stagione, nelle vicinanze del sottobosco, ho trovato qualche russola, rari porcini e, in un breve prato, le vesce, che sono funghi comuni, ma mi piacciono con le uova al tegamino. Credo che lassù l'altitudine si aggiri sui 600 metri, che rappresentano il limite della collina, ma quando ci arrivo mi sembra di essere sul faro più alto del mondo.

Quando finisce la carrareccia, verso i tre quarti del percorso, c'è una casa colonica abbandonata da tempo. Il tetto del capanno è crollato, il passato e la vita sono sepolti sotto i rovi e le grasse ortiche. Essa mi ricorda una mattina di quando avevo 15 o 16 anni. Mi fermai a parlare con un coetaneo. L'aia era popolata di galline rosse, bianche, nere. E venne la madre dell'improvvisato amico con due uova, uno per lui, uno per me, calde di nido. Ora il vento d'autunno graffia quei muri, irrompe nella stalla e muggisce, le finestre senza imposte sono orbite piene di buio, ogni pietra della facciata è una lapide che ha perso il nome.

Quella casa, che tuttavia ancora resiste, è carica di memoria, come me e la sento compagna, mi fa compagnia, mi piace vederla, cullarmi nella dolcezza della malinconia.

Ma poi riprendo il cammino e dopo un po' vedo un amico grande, che mi saluta. Basta un velo di brezza e fa festa. E' un pioppo che agita le foglie, un gigante alto una trentina di metri, del tipo detto a cipresso. Ha i miei stessi anni, ma non li dimostra, io invece sì, li sento e rappresento.

Poi mi aspetta l'ultimo tratto, il più impegnativo. Una volta il viottolo scosceso era una scorciatoia abbastanza battuta, ma, da molto tempo, non ci passano neanche i cinghiali e, non di rado, fatico ad aprirmi il varco tra i cespugli. Mi piace raggiungere il dosso della collina quando la stretta valle dell'Afra è già affogata nell'ombra del crepuscolo. Sulla cima m'inonda di nuovo il sole che sta calando sui monti opposti della Valtiberina. E' 'l'ora che volge al disio'. Quando la sera è serena, se mi volto indietro, vedo che la luna chiara è nata sopra il convento di Montecasale, mentre il sole s'adagia morente sul grande letto di nuvole rosse di sangue e fuoco con certe trame nere, premonizioni della morte.

Questo spettacolo, a cui ho assistito alcune volte, è sempre nuovo. Da lassù posso volare, più veloce della luce, nel cuore dell'universo.

Ricordo con grande piacere quella volta che, giunto alla meta, vidi due rospi. M'ero appena seduto su una roccia per lasciare sciogliere la fatica quando li notai vicini ai miei piedi. Rimanevano immobili, affiancati, quasi confusi col muschio, quattro occhi sporgenti allineati. Era andata bene che non li avessi calpestati. Li salutai garbatamente, parlai con loro. Li sentivo amici e compagni. Accoppiati in quel modo sembrava si tenessero per mano. Uno era sensibilmente più grosso e seppi poi dall'enciclopedia che quello era quella, la femmina. Non mi degnarono della minima considerazione. Mi sentii un intruso. Erano su quell'altare a celebrare l'agonia del giorno, mentre io sbandavo tra la grande bellezza e la prossima amara vittoria della morte. Pensavo: “Il sole va e viene. Anch'io vorrei navigare nel mare della notte verso una nuova alba.” E pensavo anche che i coniugi rospi romantici non si ponevano domande. Li vedevo completamente perduti nella profonda osmosi con il tramonto.

Il nostro fu un solo breve incontro, ma 'lei e lui' mi sono rimasti amici del pensiero. Talvolta li incontro nei prati della mente per farmi compagnia.
Franco Ruinetti
Illustrazioni di Man