Abbiamo il piacere di comunicare che è in avanzata fase di produzione un video promozionale sul Piccolomuseo di Fighille realizzato a cura dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Citerna. Riprese e montaggio di Ivano Boncompagni.
giovedì 30 aprile 2020
mercoledì 29 aprile 2020
martedì 28 aprile 2020
Le monete avanzate al fascismo (by Franco Ruinetti)
LE MONETE AVANZATE AL
FASCISMO
Dai 9 ai 13-14 anni di età ho vissuto un
periodo intenso di relazioni e la giostra dei giorni era bella. Quella è stata
la stagione che ricordo con la luce dell'azzurro infinito, il resto è penombra
con gorghi profondi e qualche bagliore. La vita era tutta vacanza, lo era anche
la scuola. E questo l'ho pensato dopo, allora non potevo saperlo. La maestra mi
dava 'bene' e 'bravo' nei diari e nei temi mentre per risolvere problemi mi
aiutava, ma col sorriso e con una carezza sulla testa.
Mi piaceva giocare a pallino e boccino con
le palline di coccio o vetro colorato. Non avevo soldi per comprarle, ma,
gareggiando con i compagni, le vincevo spesso perché ero diventato bravo
allenandomi sul pavimento liscio del corridoio di casa. Mia madre non capiva,
era preoccupata. Mi diceva di smettere minacciando di mandarmi in seminario.
Ma il vero grande interesse per lungo
tempo, del quale m'è rimasta traccia, sono state le monete metalliche avanzate
al fascismo. Ce n'erano tante e per noi ragazzi valevano ancora, continuavano
ad avere corso legale. Le scambiavo con Ciclone, Topolino, Madrake, di cui mi
piaceva di più l'assistente Lothar, il forzuto con i pantaloni e il fez rossi e
con quella mezza canottiera fatta con una pelle di leopardo. Con quella valuta
che non valeva più, ci si giocava e gareggiava a battimuro. Si scagliava il
soldo da una certa distanza e vinceva quello che andava più vicino al muro. Io
partecipavo sempre con lo stesso pezzo da due lire che, credevo, mi obbedisse di
più. Tenevo da conto quella moneta spesso vincente, l'avevo sempre con me, in
tasca. Una mattina la maestra me la vide riprodotta sul quaderno. Il soldo
m'era riuscito perfettamente definito. Avevo in parte coperto la pelata del re
con uno zuccotto corredato del pon-pon. L'insegnante vide e si meravigliò per
quell'esito che attribuì al mio talento artistico.
"Sei proprio bravo, hai il dono del
disegno!"
Allora in quattro e quattr'otto le
dimostrai come era facile fare l'artista. Misi il mio soldo da competizione
sotto un foglio del quaderno, vi feci scorrere sopra il lapis e s'affacciò nel
nulla della pagina, in bianco e nero, Vittorio Emanuele III con i suoi
baffetti.
Quasi in fondo alla mia strada, in
prossimità di un incrocio, proprio sotto un arco contrafforte, c'era la bottega
del Nènno, un omone che vendeva bracia, carbone e rattoppava, specialmente con
monete e medaglie di rame, che teneva in una scatola di legno, paioli, pentole,
padelle. Il locale era alto, stretto, buio anche a mezzogiorno. Parlo di lui
perché ogni tanto gli facevo volentieri visita. Mi figuravo di vedere il dio
Vulcano che forgia le folgori per Giove. Io gli detti diversi pezzi da 10
centesimi in cambio di caramelle, delle quali era ghiotto e ne aveva sempre
nella tasca sulla pettorina del grembiule. Una volta che doveva mettere la
toppa ad un calderone bucato, mentre lo guardava studiandolo, mi chiese di
prendere nella scatola un medaglione di rame e portarglielo. Era bello,
pesante, rappresentava la testa del duce insaccata nell'elmo, che era
circondato dalle parole 'CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE'. Il Nènno lavorò alla
forgia, all'incudine e, ad opera compiuta, disse:
"Pover'uomo, è finito nel culo del
paiolo!"
Quando camminavo, nelle mie tasche,
suonavano le monete decadute. Avevano il fascino mesto dei nobili, anche loro,
fuori corso. Ne vinsi parecchie e, all'ultimo, le riposi tutte dentro un
cassetto di un vecchio comodino. Le lasciai chiuse lì col tintinnio delle
battute sui pavimenti, che variava da metallo a metallo.
Poi, anni dopo, anzi decenni, ho incontrato
tante valute del fascismo esposte nei mercatini dell'usato. Allora sono salito
in soffitta, ma non ho ritrovato il cassetto e neanche il comodino. Peccato! Ho
provato l'impressione di aver perduto l'età serena nella polvere del tempo.
Però, almeno una volta, per caso e quasi di
sfuggita, ho rivissuto una scintilla di felicità.
Ero in Spagna perché avevo, con altri
colleghi, portato una quarantina di studenti a visitare un grande museo.
L'accordo era che alle 17 in punto ci dovevamo ritrovare tutti, per il rientro,
nella piazza antistante l'edificio. Ma le raccomandazioni e la puntualità
passarono in cavalleria. Allora, per ingannare l'impazienza dell'attesa mi
saltò in mente di giocare a battimuro, con le monete da 100 lire che mi
pesavano nel borsello, con i pochi alunni disciplinati rispettosi dell'orario
stabilito. In men che non si dica il numero dei partecipanti aumentò. Si
fermarono a gareggiare alcune persone di varie lingue e con differenti valute.
Circa nello spazio di tre quarti d'ora il mio porta monete dimagrì. Ma fui
contento per la magia che aveva annullato il tempo. Ero tornato ragazzo.
Franco Ruinetti
lunedì 27 aprile 2020
sabato 25 aprile 2020
venerdì 24 aprile 2020
giovedì 23 aprile 2020
mercoledì 22 aprile 2020
martedì 21 aprile 2020
La mia strada (by Franco Ruinetti)
La mia strada
Torno spesso al paese.
Percorro sempre il serpentone della Marecchiese. Dopo ogni curva c'è un
panorama diverso. Non mi stanca, mi piace. Ci ho consumato tre o quattro
macchine. Per me quel fiume è di famiglia. Nel Seicento, travolto dalla piena,
ci morì Stefano, un mio ascendente diretto, di circa 50 anni, vedovo, che
andava dalla morosa a Pennabilli. Ho ricostruito questa storia nell'Archivio diocesano
di Sansepolcro, che, appunto, è la mia frequente destinazione, luogo delle mie
vacanze, alba della nostalgia.
Conosco
il percorso palmo a palmo. Fino a 20 anni fa, forse di più, facevo sosta a Ca
Raffaello, nell'osteria de La Zaira dove, mi raccontarono, si era fermato
Vittorio Emanuele III con tutta la corte per mangiare, come era mio costume,
pane e formaggio.
Addio
Zaira: erano piacevoli quegli intervalli e quegli spuntini.
Superato
il Valico di Viamaggio si spalanca davanti la Valtiberina, culla e palcoscenico
della mia giovinezza.
Torno
nella casa paterna, cinquecentesca, dove sono nato, che ha l'ingresso ed il
prospetto principale nella via Maestra, mentre la mia camera si affaccia sulla
via Mazzini, antica via del Panìco. Ho dormito in quella stanza fino alla mia
maggiore età, che allora arrivava più tardi e lì dormo ancora quattro o cinque
volte al mese.
E
quella è la 'mia' strada.
Sotto
di me c'era il forno più grande del paese, dove la giornata lavorativa iniziava
verso le due del mattino. Provocava un gran caldo a tutta la casa, per cui
d'estate dovevo spalancare le finestre, ma nelle notti d'inverno mi rigiravo in
un tepido nido di piume. Talvolta, se mi capitava di non dormire, veleggiavo
negli acuti tenorili del figlio del fornaio e del suo collega salariato.
Possedevano, a mio giudizio, il talento canoro che mi incantava, con un pizzico
di invidia.
Cantavano
talvolta, nelle ore piccole, i lieti calici che la bellezza infiora, così
vedevo nel buio scintillare i bicchieri e i dolci sorrisi. Volavo nell'infinito
con le ali dorate del Nabucco. Poi, nell'orizzonte della notte, mi apparivano i
castelli di Eulalia Torricelli o le lucciole delle capinere.
Il
rumore dell'impastatrice non copriva le melodie.
Prima e dopo
Intorno
agli anni '50 la strada era ancora viva. La svegliava di buon mattino il gallo
della 'sora' Checca, che aveva anche qualche gallina. Io scendevo giù a giocare
a tamburello, ma giocavo raramente per l'invadenza dei più grandi. E, secondo
me, c'era un altro pollastro, il quale, più che gallo era un pavone. Lo
identificavo nel bidello che faceva la ruota con quei grandi baffi d'oro. C'era
sempre gente, soprattutto nella bella stagione. Il calzolaio si sistemava
davanti a casa col suo deschetto e spesso batteva il cuoio sull'incudine a tre
piedi di ferro. Qualche donna portava fuori la seggiola, prendeva il fresco,
stava in compagnia, faceva la calza o era intenta al tombolo. Qualcuna si
riposava dalle faccende o dal battibecco col marito, seduta sul gradino della
porta. Davanti al forno c'era la bottega del sellaio. Lo sentii dire che non
poteva insegnare il suo mestiere al figlio perché "i motori manderanno in
pensione i cavalli e non ci vorranno più le selle." Era soddisfatto che il
suo ragazzo studiasse da ragioniere. Avrebbe voluto che anche alle automobili
occorressero i paraocchi, le briglie e gli altri finimenti.
Nel
mezzo del selciato si vedeva il disegno della 'campana' tracciato con una
scheggia di coppo o di mattone. Consisteva in una successione di rettangoli e
cerchi dove fare scorrere un sasso calciato a gamba zoppa dalle ragazze, che
avevano le calzette bianche. Giocavano, gareggiavano, facevano il chiasso che
era la contentezza di quell'età e chi vinceva non si aspettava alcun premio.
Di
sera tornava Paolone con la cavalla e il baroccio. Teneva in mano la cavezza e
sussurrava all'orecchio della bestia. Gli zoccoli suonavano note lucenti sulle
pietre.
Contigua
alla stalla c'era la bettola della Padella, che ricordo robusta e non ho mai
saputo quale fosse il suo vero nome. Frequentavano il locale solo gli uomini
che si giocavano il quartino o il mezzo litro di vino alla morra e dal mio
letto sentivo vociare i numeri fino a tardi, verso le 11 della notte.
Poi
gli anni frullarono con la trottola del mondo: tutto diviene, niente è, dico
così prendendo a braccetto l'antica filosofia, la strada è cambiata, ma è la
mia, come a dire che il sentimento resta, non diviene. Poi distesero sopra le
belle pietre millenarie una spalmata di asfalto, che è una coperta stinta,
rattoppata. Raramente, durante le giornate, ora compaiono in fretta persone e
ragazzi. Il vocio dei giochi e i rumori dei mestieri sono affogati nel passato.
Le automobili sono piantate lì in fila indiana, senza soluzione di continuità,
sul lato destro del senso unico. Il sole, che passa sopra, scende dai tetti a
mezzogiorno.
Per
tutto il giorno la strada dorme in un'atmosfera rarefatta surreale, ma, alle
undici di sera, per anni e anni, si è svegliata improvvisa, fragorosa. Mi
pareva di dormire dentro un tamburo impazzito. Gli schiamazzi e le musiche di
cento trattori sfondavano le notti. Era sempre festa organizzata dal pub e dai
due bar che mi pareva non avessero orari di chiusura. Da qualche tempo va
meglio e spesso riesco a chiudere gli occhi, solo talvolta in occasione di
feste inventate, stupide, programmate, si scatenano musiche, cantanti fino alle
ore del giorno dopo per richiamare un formicolio di giovani e non giovani. Le
risate delle ragazze sono spilli e chiodi nelle orecchie. Comunque il sindaco
nuovo, appena eletto, ha posto un freno, è riuscito, almeno in parte, a far
rispettare la legge di natura, che stabilisce l'alternanza tra la veglia e il
riposo.
Una
volta, per tentare di contrastare i trionfi delle bolge notturne, presi una
iniziativa. Chiesi ai residenti in zona di partecipare all'installazione di
Radio Maria per cospargere preghiere su quel tumulto infernale. Dapprima la
proposta fu accolta con entusiasmo. Poi alcuni interessati si dissociarono col
dire che avremmo fatto il reato di ostacolare il libero commercio. Uno,
addirittura, paventava che potevamo essere denunciati per schiamazzi notturni.
Allora mi ritirai con la coda tra le gambe, ma mi sarebbe piaciuto che le
competenti autorità sanzionassero, condannassero l'Ave Maria e il Padre Nostro.
Ripeto:
è diversa, ma è sempre la mia strada. Quando mi capita di affacciarmi alla
finestra la vedo piena della mia fanciullezza e m'invade sempre un ricordo, che
è la fragranza del pane appena sfornato.
Franco Ruinetti
lunedì 20 aprile 2020
domenica 19 aprile 2020
In attesa del disgelo post Covid-19
In attesa del disgelo successivo alla fine della crisi epidemica da Covid-19 proponiamo quest'opera dell'artista Edi Brancolini:
sabato 18 aprile 2020
venerdì 17 aprile 2020
giovedì 16 aprile 2020
mercoledì 15 aprile 2020
martedì 14 aprile 2020
Finchè cavalco il giorno (by Franco Ruinetti)
FINCHE'
CAVALCO IL GIORNO
Qualche
volta è piacevole, altre volte è noioso fare quelle camminate, che
mi impegnano a giorni alterni, per combattere l'ipertensione
arteriosa. Sono una cura durante la quale ragiono il più delle volte
da solo, poi contro-ragiono: ho ragione. I motivi che mi saltano in
mente sono molteplici: riflessioni, tesi e antitesi, lampi di
immagini, ripetizioni di parole tipo tormentoni spesso senza senso.
Certe volte scandisco le sillabe al ritmo dei passi.
Stamattina,
ad un certo punto, mi sono proposto un argomento, vale a dire lo
svolgimento di un tema: 'Perché scrivo?' Ho risposto alla domanda
pressappoco così: scrivo per non pensare, non essere io, evadere.
Però, per scrivere bisogna impegnarsi, attivare la mente. E' vero,
ma scappo da me stesso e scompare il dolore provocato dai chiodi
fissi, plurali, piantati in fronte, incrostati di ruggine.
Mentre
camminavo l'unica parte di me che sentivo pesare, in un alterno
dondolio, era la testa. D'improvviso mi ha sorpassato un uomo alto un
paio di metri, che con quelle gambe lunghe aveva una marcia in più.
L'avevo incrociato qualche volta. Ci conosciamo solo di vista, ci si
saluta:
"Buona
giornata, come va?"
"Finché
il mondo gira e non inciampa, va bene."
"Speriamo
che non si stanchi, buon appetito!"
Parole
al volo, buttate là, per riempire il vuoto dell'aria, piccola
vacanza per il cervello, come un seme di zucca per l'appetito.
Quando
sono arrivato alla panchina a mezza via e a mezza faticata, mi sono
seduto per qualche minuto di sosta, per rifornimento di energia.
Ho
continuato il tema.
Scrivo,
ho argomentato, perché l'architetto sparge i miei scritti in
tutte le direzioni tramite il computer. Dice che la mia penna parla
da sola. Lui è quello che, con le sue iniziative, ha rotto il
silenzio di Fighille. Gli mando i testi per abitudine inveterata. Una
volta, soprattutto da giovane, nel vedere pubblicati i miei
vagabondaggi mentali in giornali e riviste, provavo un certo
solletico. Poi no. Ora, che viaggio negli anni pesanti, man mano
disperdo per strada gli entusiasmi che mi hanno fatto compagnia e
sostenuto. Abbandono quasi inavvertitamente questa dimensione terrena
nella quale mi trovo immerso, mi sto spogliando della voglia di
apparire e mi preparo per la residenza definitiva, che è senza
limiti, eterna. L'architetto mi dice di scrivere di arte, di Fighille, di
quello che mi pare perché nel giornale telematico c'è spazio e
allora io intervengo ogni tanto dato che ancora gli argomenti mi
balzano in testa e qualcuno lo prendo al volo così come gli
entomologi catturano le farfalle col retino.
E
poi m'è capitato, nella ribalta dell'attenzione, Enzo, l'umorista
fine disegnatore, che si firma 'Man', amico saldo
come una quercia, originale interprete e illustratore, che strattona
la realtà per volgerla in un gioco serio. Prende le mie idee, le
strapazza più o meno, le veste con la sua luce tutta nuova. Scrivo
perché sollecita il mio impegno, così vedo come mi vede ed è
sempre una scoperta.
Insomma
sono arrivato al termine della camminata e la conclusione ovvia è
che scrivo perché ho scritto da sempre, continuo anche se sono in
avanzato stato di pensione e ho la mano rallentata, forse perché non
so fare altro. Scrivo perché respiro.
Franco Ruinetti
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