giovedì 30 aprile 2020

Un nuovo video promozionale per il Piccolomuseo di Fighille

 

Abbiamo il piacere di comunicare che è in avanzata fase di produzione un video promozionale sul Piccolomuseo di Fighille realizzato a cura dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Citerna. Riprese e montaggio di Ivano Boncompagni.




mercoledì 29 aprile 2020

Rassegna FA2019 (40)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......


martedì 28 aprile 2020

Le monete avanzate al fascismo (by Franco Ruinetti)

 





LE MONETE AVANZATE AL FASCISMO 

Dai 9 ai 13-14 anni di età ho vissuto un periodo intenso di relazioni e la giostra dei giorni era bella. Quella è stata la stagione che ricordo con la luce dell'azzurro infinito, il resto è penombra con gorghi profondi e qualche bagliore. La vita era tutta vacanza, lo era anche la scuola. E questo l'ho pensato dopo, allora non potevo saperlo. La maestra mi dava 'bene' e 'bravo' nei diari e nei temi mentre per risolvere problemi mi aiutava, ma col sorriso e con una carezza sulla testa.

Mi piaceva giocare a pallino e boccino con le palline di coccio o vetro colorato. Non avevo soldi per comprarle, ma, gareggiando con i compagni, le vincevo spesso perché ero diventato bravo allenandomi sul pavimento liscio del corridoio di casa. Mia madre non capiva, era preoccupata. Mi diceva di smettere minacciando di mandarmi in seminario.

Ma il vero grande interesse per lungo tempo, del quale m'è rimasta traccia, sono state le monete metalliche avanzate al fascismo. Ce n'erano tante e per noi ragazzi valevano ancora, continuavano ad avere corso legale. Le scambiavo con Ciclone, Topolino, Madrake, di cui mi piaceva di più l'assistente Lothar, il forzuto con i pantaloni e il fez rossi e con quella mezza canottiera fatta con una pelle di leopardo. Con quella valuta che non valeva più, ci si giocava e gareggiava a battimuro. Si scagliava il soldo da una certa distanza e vinceva quello che andava più vicino al muro. Io partecipavo sempre con lo stesso pezzo da due lire che, credevo, mi obbedisse di più. Tenevo da conto quella moneta spesso vincente, l'avevo sempre con me, in tasca. Una mattina la maestra me la vide riprodotta sul quaderno. Il soldo m'era riuscito perfettamente definito. Avevo in parte coperto la pelata del re con uno zuccotto corredato del pon-pon. L'insegnante vide e si meravigliò per quell'esito che attribuì al mio talento artistico.

"Sei proprio bravo, hai il dono del disegno!"

Allora in quattro e quattr'otto le dimostrai come era facile fare l'artista. Misi il mio soldo da competizione sotto un foglio del quaderno, vi feci scorrere sopra il lapis e s'affacciò nel nulla della pagina, in bianco e nero, Vittorio Emanuele III con i suoi baffetti.

Quasi in fondo alla mia strada, in prossimità di un incrocio, proprio sotto un arco contrafforte, c'era la bottega del Nènno, un omone che vendeva bracia, carbone e rattoppava, specialmente con monete e medaglie di rame, che teneva in una scatola di legno, paioli, pentole, padelle. Il locale era alto, stretto, buio anche a mezzogiorno. Parlo di lui perché ogni tanto gli facevo volentieri visita. Mi figuravo di vedere il dio Vulcano che forgia le folgori per Giove. Io gli detti diversi pezzi da 10 centesimi in cambio di caramelle, delle quali era ghiotto e ne aveva sempre nella tasca sulla pettorina del grembiule. Una volta che doveva mettere la toppa ad un calderone bucato, mentre lo guardava studiandolo, mi chiese di prendere nella scatola un medaglione di rame e portarglielo. Era bello, pesante, rappresentava la testa del duce insaccata nell'elmo, che era circondato dalle parole 'CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE'. Il Nènno lavorò alla forgia, all'incudine e, ad opera compiuta, disse:

"Pover'uomo, è finito nel culo del paiolo!"

Quando camminavo, nelle mie tasche, suonavano le monete decadute. Avevano il fascino mesto dei nobili, anche loro, fuori corso. Ne vinsi parecchie e, all'ultimo, le riposi tutte dentro un cassetto di un vecchio comodino. Le lasciai chiuse lì col tintinnio delle battute sui pavimenti, che variava da metallo a metallo.

Poi, anni dopo, anzi decenni, ho incontrato tante valute del fascismo esposte nei mercatini dell'usato. Allora sono salito in soffitta, ma non ho ritrovato il cassetto e neanche il comodino. Peccato! Ho provato l'impressione di aver perduto l'età serena nella polvere del tempo.

Però, almeno una volta, per caso e quasi di sfuggita, ho rivissuto una scintilla di felicità.

Ero in Spagna perché avevo, con altri colleghi, portato una quarantina di studenti a visitare un grande museo. L'accordo era che alle 17 in punto ci dovevamo ritrovare tutti, per il rientro, nella piazza antistante l'edificio. Ma le raccomandazioni e la puntualità passarono in cavalleria. Allora, per ingannare l'impazienza dell'attesa mi saltò in mente di giocare a battimuro, con le monete da 100 lire che mi pesavano nel borsello, con i pochi alunni disciplinati rispettosi dell'orario stabilito. In men che non si dica il numero dei partecipanti aumentò. Si fermarono a gareggiare alcune persone di varie lingue e con differenti valute. Circa nello spazio di tre quarti d'ora il mio porta monete dimagrì. Ma fui contento per la magia che aveva annullato il tempo. Ero tornato ragazzo.



Franco Ruinetti

lunedì 27 aprile 2020

sabato 25 aprile 2020

Rassegna FA2019 (39)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......


venerdì 24 aprile 2020

Rassegna FA2019 (38)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......



giovedì 23 aprile 2020

Rassegna FA2019 (37)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......


mercoledì 22 aprile 2020

Rassegna FA2019 (36)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......


martedì 21 aprile 2020

La mia strada (by Franco Ruinetti)

 




La mia strada
Torno spesso al paese. Percorro sempre il serpentone della Marecchiese. Dopo ogni curva c'è un panorama diverso. Non mi stanca, mi piace. Ci ho consumato tre o quattro macchine. Per me quel fiume è di famiglia. Nel Seicento, travolto dalla piena, ci morì Stefano, un mio ascendente diretto, di circa 50 anni, vedovo, che andava dalla morosa a Pennabilli. Ho ricostruito questa storia nell'Archivio diocesano di Sansepolcro, che, appunto, è la mia frequente destinazione, luogo delle mie vacanze, alba della nostalgia.
Conosco il percorso palmo a palmo. Fino a 20 anni fa, forse di più, facevo sosta a Ca Raffaello, nell'osteria de La Zaira dove, mi raccontarono, si era fermato Vittorio Emanuele III con tutta la corte per mangiare, come era mio costume, pane e formaggio.
Addio Zaira: erano piacevoli quegli intervalli e quegli spuntini.
Superato il Valico di Viamaggio si spalanca davanti la Valtiberina, culla e palcoscenico della mia giovinezza.
Torno nella casa paterna, cinquecentesca, dove sono nato, che ha l'ingresso ed il prospetto principale nella via Maestra, mentre la mia camera si affaccia sulla via Mazzini, antica via del Panìco. Ho dormito in quella stanza fino alla mia maggiore età, che allora arrivava più tardi e lì dormo ancora quattro o cinque volte al mese.
E quella è la 'mia' strada.
Sotto di me c'era il forno più grande del paese, dove la giornata lavorativa iniziava verso le due del mattino. Provocava un gran caldo a tutta la casa, per cui d'estate dovevo spalancare le finestre, ma nelle notti d'inverno mi rigiravo in un tepido nido di piume. Talvolta, se mi capitava di non dormire, veleggiavo negli acuti tenorili del figlio del fornaio e del suo collega salariato. Possedevano, a mio giudizio, il talento canoro che mi incantava, con un pizzico di invidia.
Cantavano talvolta, nelle ore piccole, i lieti calici che la bellezza infiora, così vedevo nel buio scintillare i bicchieri e i dolci sorrisi. Volavo nell'infinito con le ali dorate del Nabucco. Poi, nell'orizzonte della notte, mi apparivano i castelli di Eulalia Torricelli o le lucciole delle capinere.
Il rumore dell'impastatrice non copriva le melodie.

Prima e dopo 

Intorno agli anni '50 la strada era ancora viva. La svegliava di buon mattino il gallo della 'sora' Checca, che aveva anche qualche gallina. Io scendevo giù a giocare a tamburello, ma giocavo raramente per l'invadenza dei più grandi. E, secondo me, c'era un altro pollastro, il quale, più che gallo era un pavone. Lo identificavo nel bidello che faceva la ruota con quei grandi baffi d'oro. C'era sempre gente, soprattutto nella bella stagione. Il calzolaio si sistemava davanti a casa col suo deschetto e spesso batteva il cuoio sull'incudine a tre piedi di ferro. Qualche donna portava fuori la seggiola, prendeva il fresco, stava in compagnia, faceva la calza o era intenta al tombolo. Qualcuna si riposava dalle faccende o dal battibecco col marito, seduta sul gradino della porta. Davanti al forno c'era la bottega del sellaio. Lo sentii dire che non poteva insegnare il suo mestiere al figlio perché "i motori manderanno in pensione i cavalli e non ci vorranno più le selle." Era soddisfatto che il suo ragazzo studiasse da ragioniere. Avrebbe voluto che anche alle automobili occorressero i paraocchi, le briglie e gli altri finimenti.
Nel mezzo del selciato si vedeva il disegno della 'campana' tracciato con una scheggia di coppo o di mattone. Consisteva in una successione di rettangoli e cerchi dove fare scorrere un sasso calciato a gamba zoppa dalle ragazze, che avevano le calzette bianche. Giocavano, gareggiavano, facevano il chiasso che era la contentezza di quell'età e chi vinceva non si aspettava alcun premio.
Di sera tornava Paolone con la cavalla e il baroccio. Teneva in mano la cavezza e sussurrava all'orecchio della bestia. Gli zoccoli suonavano note lucenti sulle pietre.
Contigua alla stalla c'era la bettola della Padella, che ricordo robusta e non ho mai saputo quale fosse il suo vero nome. Frequentavano il locale solo gli uomini che si giocavano il quartino o il mezzo litro di vino alla morra e dal mio letto sentivo vociare i numeri fino a tardi, verso le 11 della notte.
Poi gli anni frullarono con la trottola del mondo: tutto diviene, niente è, dico così prendendo a braccetto l'antica filosofia, la strada è cambiata, ma è la mia, come a dire che il sentimento resta, non diviene. Poi distesero sopra le belle pietre millenarie una spalmata di asfalto, che è una coperta stinta, rattoppata. Raramente, durante le giornate, ora compaiono in fretta persone e ragazzi. Il vocio dei giochi e i rumori dei mestieri sono affogati nel passato. Le automobili sono piantate lì in fila indiana, senza soluzione di continuità, sul lato destro del senso unico. Il sole, che passa sopra, scende dai tetti a mezzogiorno.
Per tutto il giorno la strada dorme in un'atmosfera rarefatta surreale, ma, alle undici di sera, per anni e anni, si è svegliata improvvisa, fragorosa. Mi pareva di dormire dentro un tamburo impazzito. Gli schiamazzi e le musiche di cento trattori sfondavano le notti. Era sempre festa organizzata dal pub e dai due bar che mi pareva non avessero orari di chiusura. Da qualche tempo va meglio e spesso riesco a chiudere gli occhi, solo talvolta in occasione di feste inventate, stupide, programmate, si scatenano musiche, cantanti fino alle ore del giorno dopo per richiamare un formicolio di giovani e non giovani. Le risate delle ragazze sono spilli e chiodi nelle orecchie. Comunque il sindaco nuovo, appena eletto, ha posto un freno, è riuscito, almeno in parte, a far rispettare la legge di natura, che stabilisce l'alternanza tra la veglia e il riposo.
Una volta, per tentare di contrastare i trionfi delle bolge notturne, presi una iniziativa. Chiesi ai residenti in zona di partecipare all'installazione di Radio Maria per cospargere preghiere su quel tumulto infernale. Dapprima la proposta fu accolta con entusiasmo. Poi alcuni interessati si dissociarono col dire che avremmo fatto il reato di ostacolare il libero commercio. Uno, addirittura, paventava che potevamo essere denunciati per schiamazzi notturni. Allora mi ritirai con la coda tra le gambe, ma mi sarebbe piaciuto che le competenti autorità sanzionassero, condannassero l'Ave Maria e il Padre Nostro.
Ripeto: è diversa, ma è sempre la mia strada. Quando mi capita di affacciarmi alla finestra la vedo piena della mia fanciullezza e m'invade sempre un ricordo, che è la fragranza del pane appena sfornato.


Franco Ruinetti

domenica 19 aprile 2020

In attesa del disgelo post Covid-19

In attesa del disgelo successivo alla fine della crisi epidemica da Covid-19 proponiamo quest'opera dell'artista Edi Brancolini:


sabato 18 aprile 2020

Rassegna FA2019 (35)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......


venerdì 17 aprile 2020

Rassegna FA2019 (34)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......


giovedì 16 aprile 2020

Rassegna FA2019 (33)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......


mercoledì 15 aprile 2020

Rassegna FA2019 (32)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......


martedì 14 aprile 2020

Finchè cavalco il giorno (by Franco Ruinetti)

 



FINCHE' CAVALCO IL GIORNO


Qualche volta è piacevole, altre volte è noioso fare quelle camminate, che mi impegnano a giorni alterni, per combattere l'ipertensione arteriosa. Sono una cura durante la quale ragiono il più delle volte da solo, poi contro-ragiono: ho ragione. I motivi che mi saltano in mente sono molteplici: riflessioni, tesi e antitesi, lampi di immagini, ripetizioni di parole tipo tormentoni spesso senza senso. Certe volte scandisco le sillabe al ritmo dei passi.

Stamattina, ad un certo punto, mi sono proposto un argomento, vale a dire lo svolgimento di un tema: 'Perché scrivo?' Ho risposto alla domanda pressappoco così: scrivo per non pensare, non essere io, evadere. Però, per scrivere bisogna impegnarsi, attivare la mente. E' vero, ma scappo da me stesso e scompare il dolore provocato dai chiodi fissi, plurali, piantati in fronte, incrostati di ruggine.

Mentre camminavo l'unica parte di me che sentivo pesare, in un alterno dondolio, era la testa. D'improvviso mi ha sorpassato un uomo alto un paio di metri, che con quelle gambe lunghe aveva una marcia in più. L'avevo incrociato qualche volta. Ci conosciamo solo di vista, ci si saluta:

"Buona giornata, come va?"

"Finché il mondo gira e non inciampa, va bene."

"Speriamo che non si stanchi, buon appetito!"

Parole al volo, buttate là, per riempire il vuoto dell'aria, piccola vacanza per il cervello, come un seme di zucca per l'appetito.

Quando sono arrivato alla panchina a mezza via e a mezza faticata, mi sono seduto per qualche minuto di sosta, per rifornimento di energia.


Ho continuato il tema.

Scrivo, ho argomentato, perché l'architetto sparge i miei scritti in tutte le direzioni tramite il computer. Dice che la mia penna parla da sola. Lui è quello che, con le sue iniziative, ha rotto il silenzio di Fighille. Gli mando i testi per abitudine inveterata. Una volta, soprattutto da giovane, nel vedere pubblicati i miei vagabondaggi mentali in giornali e riviste, provavo un certo solletico. Poi no. Ora, che viaggio negli anni pesanti, man mano disperdo per strada gli entusiasmi che mi hanno fatto compagnia e sostenuto. Abbandono quasi inavvertitamente questa dimensione terrena nella quale mi trovo immerso, mi sto spogliando della voglia di apparire e mi preparo per la residenza definitiva, che è senza limiti, eterna. L'architetto mi dice di scrivere di arte, di Fighille, di quello che mi pare perché nel giornale telematico c'è spazio e allora io intervengo ogni tanto dato che ancora gli argomenti mi balzano in testa e qualcuno lo prendo al volo così come gli entomologi catturano le farfalle col retino.

E poi m'è capitato, nella ribalta dell'attenzione, Enzo, l'umorista fine disegnatore, che si firma 'Man', amico saldo come una quercia, originale interprete e illustratore, che strattona la realtà per volgerla in un gioco serio. Prende le mie idee, le strapazza più o meno, le veste con la sua luce tutta nuova. Scrivo perché sollecita il mio impegno, così vedo come mi vede ed è sempre una scoperta.

Insomma sono arrivato al termine della camminata e la conclusione ovvia è che scrivo perché ho scritto da sempre, continuo anche se sono in avanzato stato di pensione e ho la mano rallentata, forse perché non so fare altro. Scrivo perché respiro.

Franco Ruinetti