martedì 25 giugno 2019

Tutti la vogliono... (by Franco Ruinetti)

 



TUTTI LA VOGLIONO



Nel piazzale della stazione c'era, sul cavalletto, la moto Guzzi 500 del dottore e il sole giocava con le pozzanghere, che fumigavano in una mezza mattina dell'estate. Io, che passavo di lì, mi fermai attratto dalle cromature lucenti di quella macchina. L'ampio slargo, a quel tempo, era tutto vuoto, mentre, al giorno di oggi, le automobili si contendono i riquadri.

“Ciao Franco.”

“Ma che fai lì appoggiato alla bicicletta?”

“Ascolto, mi piace ascoltare.”

Le parole di una canzone avevano le ali, volavano nell'aria e mi portarono con loro. Il testo era breve e a me noto perché lo cantava mia nonna che conosceva solo quello. Parlava dell'Abissinia, di morette da baciare e avvertiva Menelike che “le palle son di piombo e non pasticche.”

La voce in sordina, contrastata dal cinguettio delle rondini, che trascorrevano in pattuglia, richiedeva attenzione. Anche io mi misi ad ascoltare, piaceva anche a me.

“Chi è che canta?”

Non mi rispose. Era in trance, fuori dal mondo. La cantante, finita la canzone, che forse era breve oppure non ne sapeva più, la ripeteva e la ripeteva ancora.

Guardavo Luca, così si chiamava. Mi dispiaceva distrarlo, aspettavo che tornasse da quell'assenza.

“Luca!”

Niente, ancora era fuori di sé, mi fece cenno di fare silenzio con l'indice sulle labbra, dritto come un cipresso senza vento.

“Menelicche... Menelicche...”

La canzone mi ricordò quegli anni che avevo vissuto solo nelle pagine del libro di storia: l'Amba Alagi, Makallé, Toselli.

“Luca, svegliati!”

“Sì, dimmi.”


Luca era un amico. Non lo frequentavo spesso perché lavorava e non aveva tempo di bighellonare come me, che ero quasi studente. Ci si conosceva dalla scuola elementare, in quarta eravamo stati, per l'intero anno scolastico, vicini di banco. Era bravo nella soluzione dei problemi, mentre faticava nelle composizioni come temi, diari, riassunti. Una volta il maestro giudicò certe sue frasi asmatiche, una volta lui scrisse che le poesie erano aria fritta.

“Ma chi è questa che canta?”

“E' la Menca, non la conosci?”

“Sembra che tu ci abbia una cotta!”

“Sì, mi piace, anzi, a te lo posso confidare: mi piace proprio.”

“Ti sei innamorato della voce?”

“Di tutta, mi sono innamorato di tutta.”

Menca è l'abbreviazione di Domenica, ma lei, almeno a mio parere, non era una festa.

“De gustibus non disputandum.”

“Mi piace proprio, ma lei sta con un altro.”

“Fossi al tuo posto cambierei cotta.”

Parlammo a lungo sempre in piedi nel bel mezzo del piazzale anche dopo che la melodia canora si era spenta. Ogni tanto salutavo l'amico, ma lui mi tratteneva tirandomi un braccio, aveva bisogno di sfogarsi, forse di essere consolato. Pensai fosse disperso nella depressione, investito da un'idea fissa e, per me, sbagliata. Cercavo di dirgli, non in modo diretto, ma con giri di parole per non fargli male, che la Menca non era decisamente brutta, ma neanche bella. D'altronde ce l'avevo presente nello specchio della mente con il naso come un rostro e con quegli strani capelli rossi sparati a raggiera.

“Non dirmi che è brutta, molti la corteggiano, tutti la vogliono.”

“Tu ci hai provato?”

“No, ma lo sa.”

Era vero. Aveva numerosi pretendenti, ma perché s'era sparsa la voce che lei non sapesse dire di no (poi in giro c'era tanta fame) e quando la preda è facile i cacciatori sono bravi.

Qualche tempo dopo li vidi in lontananza che camminavano nella via maestra l'uno a fianco dell'altra. Mi venne l'impulso di evitarli, ma poi decisi di incontrarli.

“Ciao Luca.”

“Ti presento la Domenica.”

“Canta ancora Menelicche? Com'è che conosce quella canzone?”

“Mi piace, rispose, la cantava mia nonna.”

In seguito, molto in seguito, seppi che si sposarono e stettero insieme una trentina di anni senza generare figli. Quando, prematuramente, lui morì le lasciò un cospicuo capitale. Poi l'ho rincontrata con quei capelli sempre rossi, a raggiera, meno ispidi di quando era giovane, un po' domati dal tempo. Abbiamo fatto finta di non vederci. Teneva per mano un vecchiotto, anche lui dotato di un bel becco. Mi sono immaginato come fiorissero i baci all'ombra grande di quei nasi. E ho ripensato spesso a lei, vissuta d'amore. Il quale è dei belli, dei brutti, dei giovani, dei vecchi. E' di tutti: cieco e democratico.


Franco Ruinetti
Illustrazioni di Man


lunedì 24 giugno 2019

martedì 18 giugno 2019

Erano gli anni '49-'50 (by Franco Ruinetti) -

 


ERANO GLI ANNI '49 – '50



Sotto quell'aiuola c'è tanta fanciullezza. Passavo da lì, dietro l'antica chiesa, mi sono fermato e d'improvviso m'è apparso il passato. Alla mia età i luoghi parlano spesso, sono pieni di ricordi. E quel largo spiazzo ondulato vestito dall'ombra del vecchio ippocastano, oggi silente, assorto nel primo pomeriggio, allora, qualche passo dopo la guerra, era terra nuda, fiorita di ragazzi, quindici o venti, che alzavano il chiasso all'unisono, come guidati dalla bacchetta di un maestro di musica.

Su quella zona del giardino, una pettata che si appoggia all'interno delle mura medioevali, ci si ritrovava tutti, in ogni stagione, tempo permettendo, subito dopo pranzo, puntuali come al suono della campanella la mattina davanti alla scuola. Si faceva il giro d'Italia con le palline per la maggior parte di terracotta. La pista che si snodava tortuosa come una gran serpe tra valichi e valli era lunga una cinquantina di metri. 

L'aveva fatta un manovale con la zappa e, in certi punti, anche con la calce. Era un uomo che poi spesso assisteva alle gare. Si trattava di una specie di budello profondo al massimo dieci centimetri dove correvano le biglie sospinte dai concorrenti. Il loro motore era il dito indice che scattava sul pollice o viceversa. Bisognava calibrare giustamente la forza del 'pizzico' per non fare sbalzare il 'corridore' fuori dal tracciato, nel qual caso restava indietro. La partecipazione costava due o tre palline a ciascuno, che costituivano il monte premi per i vincitori.

Giovannone era il concorrente più grande, aveva fatto le tre medie in sei anni, si specializzava. Metteva in pista una biglia di acciaio, bella lucente, chissà dove l'aveva presa. Era Coppi, forte passista, ma in salita pesante, meno agile della mia Bartali di coccio. Ogni tanto avvenivano discussioni animate, ma, quando parlava lui, gli altri stavano in silenzio. Era il regolamento in persona. E, spesso, si dilettava a fare la radiocronaca, specialmente quando il suo capitano era in testa: “...un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi.” E io ci soffrivo, ma mi prendevo la rivincita sul Tourmalet e sulle Alpi dove con frequenza riuscivo a scollinare per primo e poca importanza aveva il fatto che i Pirenei non fossero in Italia. Quando Coppi tagliava il traguardo davanti a tutti gli altri, gli avversari dicevano: “Ha preso la bomba”, senza sapere cosa fosse. 

Io ci avevo pensato, forse era uno zabaione rinforzato parecchio col vinsanto, che a me piaceva e qualche volta la mia mamma me l'aveva fatto al mattino per darmi un po' di carica. Uno dei più piccoli concorrenti si chiamava Giannino, che perdeva sempre, ma non si preoccupava perché le sue tasche erano gonfie di palline. “Tu sei Malabrocca, lo apostrofò un compagno, tutti i giorni maglia nera.” Il ragazzetto non si scompose: “Uno deve arrivare ultimo, non lo sapevi?”

Sotto l'aiuola festosa di fiori e colori, che si distende sulle modulazioni di quella salitella, dove oggi si snodano ordinate le siepi di bosso, è bello vedere la mia fanciullezza, sentire echeggiare le voci dei miei compagni. Ho sostato a lungo guardando nelle lontananze del ricordo, troppo a lungo perché, d'improvviso, mi sono accorto che lì da presso, sulla panchina, che quella volta non c'era, amoreggiavano due fidanzatini. Allora la nostalgia ha voltato pagina, ho capito di essere importuno e mi sono allontanato fingendo di non averli visti.

Franco Ruinetti
Illustrazioni di Man


martedì 11 giugno 2019

Illusione e realtà (by Franco Ruinetti)

 





ILLUSIONE E REALTA'



Ho ottanta anni suonati, ma spesso non ci penso, me ne dimentico, vorrei non crederci. Certamente quando faccio la coda dalla commercialista o negli uffici comunali, dal dottore per le pasticche o, che so io, allo sportello della posta, allora me li sento. Li vedo allo specchio, ma lo evito. Invece con frequenza evado dalla mia età, non voglio sentire la piena del tempo, mi libero dai lacci inventati dal progresso e metto le ali. Ci vuol poco: mi basta rileggere qualche pagina de Le avventure di Pinocchio, ancora ragazzo, alcuni giornaletti che conservo in garage di Mandrake o, meglio ancora, qualche album di Topolino, giovane alla fine della guerra e mai invecchiato.

Vorrei riprendere il motoscafo fatto a forza di sgorbia e raspa, modellando un pezzo di travetto, una settantina di anni fa, come a dire ieri. Dovrei correggerlo e completarlo siccome galleggiava storto, però non ce la faccio perché il lavoro è impegnativo e i familiari, gente concreta, potrebbero preoccuparsi per la mia serenità mentale.

Invece ho rifatto la fionda, stavolta con una forcella di ferro. E' stata sempre la mia arma preferita. Una volta ho costruito anche un arco e le frecce con le stecche elastiche di un ombrello vecchio, ma quest'arma era disagevole, poco pratica. L'ho nascosta in soffitta dov'è rimasta. Quando la impugnavo mi pareva di essere un Robin Hood fuori tempo, da far ridere.



Angiolino




Sei passato dalla luce del giorno a quella del paradiso come a voltare pagina di un libro. Nel tuo nome c'era il destino e quella mattina facesti la fredda improvvisata. Mi sembra che il tempo sfumi e che ancora frequentiamo la quarta elementare, ma io in paese e tu in campagna. In quel pomeriggio assolato di luglio, come altre volte, siamo stati insieme a giocare nel campo dietro casa dove si trovavano le schegge della guerra. Tu, a piedi nudi, correvi come un 'lepro' (lo chiamavi così perché dicevi che la lepre è la moglie). Eri più veloce di me che avevo le scarpe e, per stuzzicarmi, mi dicevi 'signorino'. Con un temperino avevi fatto, con l'ornello, delle forcelle perfette per la 'frombla'.

“Si dice fionda”.

“No, la mia mamma dice frombla.”

Abbiamo piantato per terra un bastone e gli si è messo sopra un barattolo vecchio, come fosse un cappello, che fungeva da bersaglio e quando, ogni tanto, si colpiva, faceva un suono sordo, quasi un lamento. Dopo qualche tiro, alla tua arma si è spezzato un elastico.

“Era fracico.”

“Si dice fradicio.”

“No, la mia mamma dice fracico.”

Si sostituì l'elastico tagliando una fetta di camera d'aria rossa (quelle rosse erano le migliori) di bicicletta e continuammo la guerra contro il barattolo.

Era bello gareggiare con quell'arma e penso che tu continui ad usarla anche in paradiso lanciando la sfida a tutte quelle brave persone nel tempo libero, che faranno salti di contentezza. Lassù, dove c'è la perfezione dell'ordine, non trovi di certo barattoli vuoti, buttati via, di fagioli o sardine, ma farai il bersaglio con un'aureola dismessa o col disco della luna, che, comunque, è già bucherellata.



Il ginocchio alleato dello specchio



La fionda ce l'ho ancora, la tengo nella cassetta degli attrezzi e non la porto in tasca quando, su prescrizione medica, vado a camminare. E' pesa e ingombrante: io non ho trovato un ramo di ornello adatto a fare una forcella pratica, leggera, con la giusta apertura. Però faccio ancora le gare, ma le vivo nello schermo della mente, con Angiolino che torna di corsa a piedi nudi, che ripete le parole del vocabolario materno (sono belle, colorate), così è come allora e io sono ragazzo, ho rotto il tempo e mi sento dentro una sfera magica.

Qualche volta passo dietro quella casa, saluto l'amico da lontano, entro nel bosco, percorro gli antichi sentieri ormai praticati soprattutto dai cinghiali.

E canto perché mi piace, ma in sordina, dove non c'è gente, perché sono stonato. Ma giorni or sono mi prolungai in un acuto del 'Granada' di Claudio Villa. Allora venne fuori dal folto di ginestre e scope un uomo col paniere, che mi guardò sorridendo:

“Se ragli così i funghi scappano via perché hanno paura.”

Quando il viottolo si presta mi viene voglia di correre, anzi è meglio dire di fare footing, così sono à la page e ho diritto di cittadinanza nella presente esterofila evoluzione linguistica.

Accelero, ma freno subito perché al primo zompo cigola il ginocchio destro, mi duole, devo fermarmi, così volo da 10 a 80, più veloce di una sassata con la fionda. Perché il corpo ha un suo linguaggio perentorio e, anche lui, proclama che sono vecchio.

Franco Ruinetti
Illustrazioni di Man


lunedì 10 giugno 2019

sabato 8 giugno 2019

Segnalazione d'arte (254) - Stanghella





Domenica 9 giugno 2016, dalle ore 8.00 in poi, si terrà la nona edizione dell'Estemporanea di pittura di Stanghella (Padova), organizzata dal Circolo Culturale La Tavolozza col Patrocinio del Comune di Stanghella, presso Villa Centanini, Piazza Pighin - Stanghella.
Categoria unica: Primo premio, Euro 800; secondo premio, Euro  500; terzo premio, Euro 300. Premio in memoria di Caterina Soldà offerto da Cablo Veneta: Euro 250. Quota di partecipazione: Euro 20.
Timbratura delle tele dalle ore 8.00 alle ore 12.00. Le opere dovranno essere eseguite sul posto, a tema LIBERO, nella più ampia libertà di interpretazione, con totale libertà di tecnica. Supporti minimo 40x50 cm e massimo 110x120 cm.
Alle ore 13 spuntino offerto dall'organizzazione. Alle ore 17 circa consegna delle opere. Alle ore 18 circa premiazione alla presenza delle Autorità locali.
Regolamento integrale su http://circolotavolozza.jimdo.com/ e sulla pagina Facebook https://www.facebook.com/events/359224608276702/
La manifestazione si svolgerà in qualsiasi condizione meteorologica.
Per informazioni - mail: circolotavolozza@gmail.com / cellulare: 339 70 18 632 (Lucia)/ Facebook: https://www.facebook.com/circolo.tavolozza