sabato 11 agosto 2018

Verso la 37° edizione del Premio Fighille ricordando vecchi amici (by Franco Ruinetti)




Si cammina a grandi passi verso la 37^ edizione della rassegna di pittura, che, di volta in volta, ha  sempre superato se stessa fino a conseguire un autentico successo nazionale. Due anni fa, per il traguardo delle 35 edizioni, la Pro Loco ha pubblicato un libro che racconta la storia del concorso nato e cresciuto a dismisura in questa breve contrada. 
Io, vecchio frequentatore di questo evento a scadenza annuale, ho spesso scritto delle note sugli artisti concorrenti. Stavolta invece voglio parlare di alcuni protagonisti che non ci sono più, ma ho avuto la fortuna di conoscere e spesso incontrare. Erano amici che hanno lasciato un vuoto profondo.

Americo Casi inventò il concorso. Conoscevo questo personaggio riservato, ma che aveva nella mente una fucina di idee, perché me lo aveva presentato Italiano Panicucci, suo vicino di casa e mio amico di lunga data.
Rivedo la sera di un giorno bollente, col cielo coperto da nuvole spesse, basse, corrugate da qualche lampo lontano. Eravamo in macchina.
“Oggi ho sudato per non far niente, speriamo che venga a piovere.”
“Questi sono i giorni più caldi, del termidoro!”
“Non fare il professore e speriamo che non grandini. Se cade un rovescio d'acqua l'estate si rompe. Andiamo al salumificio, tu non l'hai ancora visto.”


Le prime gocce grosse e rade si schiacciavano sull'asfalto. Quando scendemmo dalla macchina sia Italiano che Americo si lamentarono sollevandosi diritti in piedi a fatica. Erano colleghi di mal di schiena. Entrammo in un grande locale.
“Qui, spiegò Americo, siamo nel frigorifero. Avevo imparato la tecnica del frigorista dal Dindelli, che non era decorato da titoli, ma valeva quanto un diplomato moltiplicato per un ingegnere.”
C'era un odore acre, stimolante. Da una parte, nella semioscurità, si intravvedevano pendere file sovrapposte di prosciutti, dall'altra salami ed altri insaccati. Entrava il vento dalla porta aperta. Gli impiccati restavano fermi, inchiodati nel vuoto. Quando tornammo alla macchina aveva già smesso di piovere. Gli chiesi come aveva trovato i nomi e gli indirizzi dei pittori invitati ai concorsi.
“Mi hai aiutato te.”
“Io!?”
“Li ho trovati nella rivista Praxis alla quale collabori. Ora il concorso l'ho consegnato alla Pro Loco. E' cresciuto e io non ce la faccio più. Se puoi dà una mano a quei ragazzi.”

Il tempo passa, si consuma, ma il ricordo di Guerrino Bardeggia insiste, urge nell'assenza. Una volta mi dette un pettirosso dipinto su una tavoletta breve, più o meno 20 cm per 15.
“Questo vorrei essere io, mi disse, pensaci”.
Andavo con una certa frequenza a trovarlo a Gabicce nella sua casa-laboratorio-museo. Se ritardavo mi telefonava. 

Lui lavorava all'esterno e, se pioveva, nell'ingresso poggiando la tela o la lastra di legno su un tavolo. Non usava il cavalletto. Le stanze erano stipate di quadri accatastati con ordine. Si passava a senso unico, come al supermercato.

“Vai dentro, i cioccolatini sono sul tavolino, guarda quello che ti pare e poi portami le tue riflessioni, quelle cattive, le altre non m'interessano.”



Continuava a dipingere e nel contempo registrava le poesie che gli capitavano in mente. Lavorava a tempo pieno, senza domeniche, né ferie. Esprimeva una creatività a getto continuo: sempre originale, sempre lui, nel senso della continuità stilistica. Talvolta iniziava l'opera direttamente col colore.
“Non c'è bisogno della matita, il racconto è nel pennello.
Sfogliavo i quadri, andavo dalla “Genesi” all'”Inferno”, dall'”Apocalisse” alla “Deposizione”, al “Crocefisso”.
Certi colori sembrava m'aggredissero; lo strazio di corpi dilaniati, la bellezza e l'innocenza violentate erano la sofferenza del mondo e di Guerrino, ma mi soffermavo anche sulla seduzione muliebre, su quegli occhi con le luci dell'anima e su quei cieli così reali e così interiori. Vedevo magmi cromatici che esplodevano in brandelli e scintille di verde, azzurro, bianco, giallo, scomparivano nell'infinito del nero, si perdevano nelle intonazioni del rosso. Il pettirosso ricorre spesso nella produzione dell'artista. E' un'allegoria sospesa sulla fronte del dolore.

Giorgio Rinaldini aveva lo studio a Rimini, nella centrale Piazza Tre Martiri.
“Non fare i nudi di donna, non li conosci!”
“Li conosco e poi li sogno.”
Era bello scherzare con lui, amico per trent'anni, fino all'ultimo. Aveva il cavalletto vicino alla finestra socchiusa anche d'inverno. Indossava uno scialle fermato all'altezza del petto con uno spillo da balia e calzava in testa una cuffia fatta all'uncinetto con fili di lana bianchi e azzurri. Stringeva tra le labbra sempre lo stesso mozzicone di sigaro spento.
“Perché non chiudi quella finestra? Entra il freddo.”
“Entra aria buona, si sente che hai fumato. Ora siediti, non andare via subito, sulle pareti c'è il mio mondo, puoi viaggiare senza spendere.”


Oltre ad alcuni nudini, così li chiamava, fatti con il vapore delle nuvole, c'erano quadri nei quali le velature cromatiche erano trasparenti nel paese della poesia. Perché Rinaldini era un poeta del pennello, riviveva intatti gli stupori della fanciullezza e si allontanava nei chiarori della fantasia. M'è rimasto nella mente quello spicchio grande di luna che trascorreva sopra le cabine della spiaggia, legato con una cordicella come un palloncino tirato da un bimbo in corsa. E come dimenticare la fanciulla dei fiori, tante volte dipinta eppure sempre diversa. Era un po' liberty, un po' vera, dolcissima, quasi una favola, alba dell'amore.
“Torna presto, ho pensato di regalarti un castello.”
Non sono diventato conte o marchese perché l'amico artista non fece a tempo a dipingermi il maniero.
 

Franco Ruinetti