venerdì 3 maggio 2019

Incontri (by Franco Ruinetti)

 




INCONTRI



Ne ho incontrate di persone e cose che non scompaiono nella nebbia del passato. Capita a tutti. Restano in fondo alla mente e tornano a galla anche a distanza di decenni, all'improvviso, soprattutto nella palude della solitudine, accendono una piccola alba di dolcezza, fanno compagnia.


Romano



Aveva la mente come le luci di Natale, a intermittenza. Talvolta, alle 9 della sera, in ogni stagione, al chiarore incantato della luna piena o percosso dalla grandine, lui era lì, ritto sul gradino d'ingresso di quel palazzo, sotto la lapide in memoria di Giuseppe Mazzini. Teneva concione. Ma l'uditorio non c'era. Lo conoscevano tutti. Solo qualche giovinastro, passando, gli lanciava parole inascoltate di scherzo o di scherno. Le ragazze e le donne trascorrevano svelte rasente al muro della casa di fronte. Io lo ascoltavo mentre bevevo lentamente la gazzosa seduto su una panca fuori dal bar prossimo al suo podio, qualche volta soltanto perché la curiosità mi si trascolorava in tristezza.

Il suo dire era a brandelli, lampi di immagini mescolate con idee, verità, sofferenza, un guazzabuglio recitato a voce monocorde, in qualche misura elegante.

Il ricordo filtra i motivi di quell'apparente nebulosa eloquenza per comporre frasi sciolte, ma intellegibili.

“Il Don era il fiume, ma le campane non si sentivano, mi si ghiacciò mezzo cervello, l'ho dato alla patria, Mussolini ci mandò me a conquistare la Russia, che era una bella donna come 'la tripolina', facile da prendere, non lo so come ho fatto a ritornare, non lo so, le monache mi danno da mangiare e un bicchiere di vino, sono brave, ma la vecchia no, un bicchiere e basta sennò cala la nebbia nel mezzo cervello, ero balilla, avanguardista, sono Romano, figlio del fascismo, non si fa così, neve buio paura con i brividi silenzio morti. Mortissimi...”

Dopo questa parola scattava sull'attenti, ci restava un po', quindi continuava a parlare agli assenti, in semitono, come fosse un'orazione con brevi pause, sgangherata.

Aveva un berretto floscio senza verso e uno strappo sui pantaloni, che era miseria, non un anticipo di moda.

Poi Romano non apparve più. Scampato all'inverno russo s'inabissò nel gennaio italiano. Mi venne da pensare che fosse salito di sopra, da Giuseppe Mazzini, che lo aveva accolto come si merita, da eroe, divenuto tale certamente controvoglia e per una causa sbagliata. A me è gradito il suo ricordo, perché gli voglio bene.




Il pedagogista fuciliere


Durante una delle camminate a giorni alterni che faccio per corroborare la mia senilità, mi raggiunge un uomo, apparentemente sulla quarantina:

“Buongiorno.”

Mi sorpassa correndo agile e dinoccolato. Poco più avanti si ferma e mi aspetta.

“La vita è bella, ma la bella vita è meglio.”

“Ha ragione, questo si chiama calembour.”

“Fai ancora il professore, è un vizio!”

Questa osservazione mi colpisce, ma poi ho pensato che al giorno d'oggi il “lei” è vecchiume, decrepito, che il 'tu' imperversa, è di moda. Gli chiedo:

“Ci conosciamo?”

“Sono un alunno, non tuo, ma sono ancora un alunno, come tu sei ancora un insegnante.”

Mi guarda interrogativo in attesa di una risposta, anche io lo guardo diretto, ma per poco perché ha un occhio sbalestrato, che fa lo sgambetto. Camminiamo fianco a fianco.

“Hai ragione, è vero, siamo quelli che siamo stati...”

E qui mi taccio pensoso perché non so proprio dove andare a parare. Allora, inattesa, lui attacca una filippica senza freni, che, a sommi capi, riferisco.

“All'asilo una maestra mi dava le botte, più piangevo e più me ne dava. A casa non dicevo niente perché avevo paura dei brontoli della mamma. Alle elementari sono stato bravo, la maestra, l'ultimo giorno di scuola, mi dette un bacio sulla testa. Poi la scuola media per me è stata un disastro. Per fare tre anni ne ho impiegati cinque.”

Scandisce nome e cognome dei suoi insegnanti per i quali dice di non nutrire rancori benché non fossero come pensa dovessero essere.

“E come dovevano essere?”

“Se maestri e professori non vogliono bene ai ragazzi, almeno a quelli della scuola dell'obbligo, devono cambiare mestiere. Non esiste la svogliatezza, esiste invece l'incapacità di suscitare interesse. Se un ragazzo ha difficoltà cognitive non può essere condannato con la bocciatura, che è una condanna, non certo uno stimolo. A lui gli insegnanti devono dedicare più attenzione e pazienza che agli altri, non li scartino, non li umilino. Ma proprio pochi giorni fa ho letto una bella notizia: il Consiglio di Stato ha ammesso alla classe superiore uno studente di prima media che era stato bocciato. Sono contento, questa sentenza mi dà ragione e boccia quei professori che credono nella bocciatura educativa.”

Questo incontro è stato sorprendente. Lui la pensa come me. Qualche giorno dopo, ancora nel corso di un'altra mia solita camminata, fermo un ex collega al quale chiedo se conosce quel tizio che fa footing ed è strabico.

“Non ci ho mai parlato, ma so chi è.”

“Chi è?”

“Un matto.”

“Ma cosa dici!? Io penso che ragiona bene, è interessante.”

“Lui abita a piano terra in un condominio e una notte, nel suo scantinato, prese a fucilate i topi, svegliò di soprassalto i condomini, accorsero i carabinieri a sirene spiegate.”




La damigiana


Al mercatino rionale dell'usato, per terra in un angolo, tra tanta ruggine del tempo, incontrai la damigiana, una di quelle maneggevoli da 28 litri, ancora decentemente vestita di vimini, dal collo sbeccato quasi a punta, vuota, ma per me piena di ricordi. La battezzai all'impronta, prima di comprarla, 'Nostalgia'.

“Quanto costa?”

“Molto, è un pezzo unico. Dammi quello che vuoi, portala via.”

“Tre euro, va bene?”

“Hai fatto un affare.”

La portai a casa, mia moglie non c'era, era fuori a fare la spesa. Tolsi, in salotto, dal tavolino finto liberty la zuppiera in ceramica e misi la damigiana sopra il centrino all'uncinetto che ci lasciai per non offendere il lucido del piano. La guardai. Era uno spettacolo, un monumento al mio passato, del quale era una vertiginosa sintesi. Mi ricordava quei due o tre anni, quando la mezzadria agonizzava, durante i quali, benché ancora poco più che ragazzo, feci il cantiniere in un fondo attraversato da un grande arco, antica stalla, confinante con le mura del paese e con l'orto del convento sul quale si apriva l'unica finestra con l'inferriata. Mi piaceva quel locale dove il tempo s'era dimenticato di crescere, era rimasto al medioevo.

Una volta, mentre versavo nel tino il mosto, scivolai, caddi e la damigiana andò in frantumi. Non mi ferii, feci solo un bagno alcolico.

Quell'arredo insolito rustico poetico mi faceva rivivere il dispiacere per la perdita del contenuto e del contenitore. Mi ricordava anche quell'intero periodo bello matto difficile allorché avevo smesso di andare a scuola, ma studiavo in quella cantina che era come un'aula tutta per me, fredda soprattutto nella solitudine quando vedevo il tramonto a scacchi, struggente, nella finestra. Viaggiavo deragliato dalle regole canoniche, m'ero fatto le mie regole. Conobbi Kant, Hegel e compagnia bella. Ragionai con loro, poi mi fecero venire la nausea, perché sapevano tutto, troppo. M'innamorai di Dante e della poesia, che non fa prediche e le sue parole sono vele al vento.

Bella la damigiana. Era il mio autoritratto spirituale. Mia moglie la guardò e andò in camera a rifare il letto.

Il giorno dopo la 'Nostalgia' non c'era più. Al suo posto, sul centrino all'uncinetto, c'era di nuovo la zuppiera di ceramica.

“Dove l'hai messa?”

“L'ho portata alla discarica, non voglio far ridere chi viene.”

Non risposi, decisi di non discutere con lei che, è evidente, non apprezza la pop art.



Franco Ruinetti