INCONTRI
Ne
ho incontrate di persone e cose che non scompaiono nella nebbia del passato.
Capita a tutti. Restano in fondo alla mente e tornano a galla anche a distanza
di decenni, all'improvviso, soprattutto nella palude della solitudine,
accendono una piccola alba di dolcezza, fanno compagnia.
Romano
Aveva
la mente come le luci di Natale, a intermittenza. Talvolta, alle 9 della sera,
in ogni stagione, al chiarore incantato della luna piena o percosso dalla
grandine, lui era lì, ritto sul gradino d'ingresso di quel palazzo, sotto la
lapide in memoria di Giuseppe Mazzini. Teneva concione. Ma l'uditorio non
c'era. Lo conoscevano tutti. Solo qualche giovinastro, passando, gli lanciava
parole inascoltate di scherzo o di scherno. Le ragazze e le donne trascorrevano
svelte rasente al muro della casa di fronte. Io lo ascoltavo mentre bevevo
lentamente la gazzosa seduto su una panca fuori dal bar prossimo al suo podio,
qualche volta soltanto perché la curiosità mi si trascolorava in tristezza.
Il
suo dire era a brandelli, lampi di immagini mescolate con idee, verità,
sofferenza, un guazzabuglio recitato a voce monocorde, in qualche misura
elegante.
Il
ricordo filtra i motivi di quell'apparente nebulosa eloquenza per comporre
frasi sciolte, ma intellegibili.
“Il
Don era il fiume, ma le campane non si sentivano, mi si ghiacciò mezzo
cervello, l'ho dato alla patria, Mussolini ci mandò me a conquistare la Russia,
che era una bella donna come 'la tripolina', facile da prendere, non lo so come
ho fatto a ritornare, non lo so, le monache mi danno da mangiare e un bicchiere
di vino, sono brave, ma la vecchia no, un bicchiere e basta sennò cala la
nebbia nel mezzo cervello, ero balilla, avanguardista, sono Romano, figlio del
fascismo, non si fa così, neve buio paura con i brividi silenzio morti.
Mortissimi...”
Dopo
questa parola scattava sull'attenti, ci restava un po', quindi continuava a
parlare agli assenti, in semitono, come fosse un'orazione con brevi pause,
sgangherata.
Aveva
un berretto floscio senza verso e uno strappo sui pantaloni, che era miseria,
non un anticipo di moda.
Poi
Romano non apparve più. Scampato all'inverno russo s'inabissò nel gennaio
italiano. Mi venne da pensare che fosse salito di sopra, da Giuseppe Mazzini,
che lo aveva accolto come si merita, da eroe, divenuto tale certamente
controvoglia e per una causa sbagliata. A me è gradito il suo ricordo, perché
gli voglio bene.
Il
pedagogista fuciliere
Durante una delle camminate a giorni alterni che faccio per corroborare la mia senilità, mi raggiunge un uomo, apparentemente sulla quarantina:
“Buongiorno.”
Mi
sorpassa correndo agile e dinoccolato. Poco più avanti si ferma e mi aspetta.
“La
vita è bella, ma la bella vita è meglio.”
“Ha
ragione, questo si chiama calembour.”
“Fai
ancora il professore, è un vizio!”
Questa
osservazione mi colpisce, ma poi ho pensato che al giorno d'oggi il “lei” è
vecchiume, decrepito, che il 'tu' imperversa, è di moda. Gli chiedo:
“Ci
conosciamo?”
“Sono
un alunno, non tuo, ma sono ancora un alunno, come tu sei ancora un insegnante.”
Mi
guarda interrogativo in attesa di una risposta, anche io lo guardo diretto, ma
per poco perché ha un occhio sbalestrato, che fa lo sgambetto. Camminiamo
fianco a fianco.
“Hai
ragione, è vero, siamo quelli che siamo stati...”
E
qui mi taccio pensoso perché non so proprio dove andare a parare. Allora,
inattesa, lui attacca una filippica senza freni, che, a sommi capi, riferisco.
“All'asilo
una maestra mi dava le botte, più piangevo e più me ne dava. A casa non dicevo
niente perché avevo paura dei brontoli della mamma. Alle elementari sono stato
bravo, la maestra, l'ultimo giorno di scuola, mi dette un bacio sulla testa.
Poi la scuola media per me è stata un disastro. Per fare tre anni ne ho
impiegati cinque.”
Scandisce
nome e cognome dei suoi insegnanti per i quali dice di non nutrire rancori
benché non fossero come pensa dovessero essere.
“E
come dovevano essere?”
“Se
maestri e professori non vogliono bene ai ragazzi, almeno a quelli della scuola
dell'obbligo, devono cambiare mestiere. Non esiste la svogliatezza, esiste
invece l'incapacità di suscitare interesse. Se un ragazzo ha difficoltà
cognitive non può essere condannato con la bocciatura, che è una condanna, non
certo uno stimolo. A lui gli insegnanti devono dedicare più attenzione e
pazienza che agli altri, non li scartino, non li umilino. Ma proprio pochi
giorni fa ho letto una bella notizia: il Consiglio di Stato ha ammesso alla
classe superiore uno studente di prima media che era stato bocciato. Sono
contento, questa sentenza mi dà ragione e boccia quei professori che credono
nella bocciatura educativa.”
Questo
incontro è stato sorprendente. Lui la pensa come me. Qualche giorno dopo,
ancora nel corso di un'altra mia solita camminata, fermo un ex collega al quale
chiedo se conosce quel tizio che fa footing ed è strabico.
“Non
ci ho mai parlato, ma so chi è.”
“Chi
è?”
“Un
matto.”
“Ma
cosa dici!? Io penso che ragiona bene, è interessante.”
“Lui
abita a piano terra in un condominio e una notte, nel suo scantinato, prese a
fucilate i topi, svegliò di soprassalto i condomini, accorsero i carabinieri a
sirene spiegate.”
La
damigiana
Al mercatino rionale dell'usato, per terra in un angolo, tra tanta ruggine del tempo, incontrai la damigiana, una di quelle maneggevoli da 28 litri, ancora decentemente vestita di vimini, dal collo sbeccato quasi a punta, vuota, ma per me piena di ricordi. La battezzai all'impronta, prima di comprarla, 'Nostalgia'.
“Quanto
costa?”
“Molto,
è un pezzo unico. Dammi quello che vuoi, portala via.”
“Tre
euro, va bene?”
“Hai
fatto un affare.”
La
portai a casa, mia moglie non c'era, era fuori a fare la spesa. Tolsi, in
salotto, dal tavolino finto liberty la zuppiera in ceramica e misi la damigiana
sopra il centrino all'uncinetto che ci lasciai per non offendere il lucido del
piano. La guardai. Era uno spettacolo, un monumento al mio passato, del quale
era una vertiginosa sintesi. Mi ricordava quei due o tre anni, quando la
mezzadria agonizzava, durante i quali, benché ancora poco più che ragazzo, feci
il cantiniere in un fondo attraversato da un grande arco, antica stalla,
confinante con le mura del paese e con l'orto del convento sul quale si apriva
l'unica finestra con l'inferriata. Mi piaceva quel locale dove il tempo s'era
dimenticato di crescere, era rimasto al medioevo.
Una
volta, mentre versavo nel tino il mosto, scivolai, caddi e la damigiana andò in
frantumi. Non mi ferii, feci solo un bagno alcolico.
Quell'arredo
insolito rustico poetico mi faceva rivivere il dispiacere per la perdita del
contenuto e del contenitore. Mi ricordava anche quell'intero periodo bello
matto difficile allorché avevo smesso di andare a scuola, ma studiavo in quella
cantina che era come un'aula tutta per me, fredda soprattutto nella solitudine
quando vedevo il tramonto a scacchi, struggente, nella finestra. Viaggiavo deragliato
dalle regole canoniche, m'ero fatto le mie regole. Conobbi Kant, Hegel e
compagnia bella. Ragionai con loro, poi mi fecero venire la nausea, perché
sapevano tutto, troppo. M'innamorai di Dante e della poesia, che non fa
prediche e le sue parole sono vele al vento.
Bella
la damigiana. Era il mio autoritratto spirituale. Mia moglie la guardò e andò
in camera a rifare il letto.
Il
giorno dopo la 'Nostalgia' non c'era più. Al suo posto, sul centrino
all'uncinetto, c'era di nuovo la zuppiera di ceramica.
“Dove
l'hai messa?”
“L'ho
portata alla discarica, non voglio far ridere chi viene.”
Non
risposi, decisi di non discutere con lei che, è evidente, non apprezza la pop
art.
Franco
Ruinetti