LA CAMPANA
DELLA MONACA
La memoria
possiede uno specchio speciale che ripete le cose, non solo quelle esteriori,
fisiche, ma anche quelle interiori, come i pensieri. Questa facoltà, talvolta,
mi fa fare grandi salti per riportarmi all'età in cui ero pervaso da una
curiosità senza freni. Non so quanti anni avessi, ma era l'epoca del mio primo
mattino quando mi rivedo in quella casa grande. La mamma era giovane e si
faceva i boccoli con una particolare pinza che scaldava sui carboni ardenti del
fornello. Mi rivedo in un alone di luce immerso nella solitudine volta
all'attesa. Volli provare quel ferro, non so, forse per essere più grande, più
bello o soltanto per colmare un po' di spazio del tempo, fatto sta che mi
abbrustolii una ciocca di capelli causando cattivo odore, ma questo episodio
passò quasi liscio con una sola sgridata che fu come una nuvola veloce e non si
ripeté anche per il motivo che la pinza sparì dal suo solito posto.
Lo specchio
delle rimembranze mi ripropone fanciullo, come
sospeso nel tempo, senza amici eppure non volevo andare all'asilo dove, quando
mia sorella mi aveva portato, avevo preso a calci negli stinchi la maestra.
Comunque il periodo del mio confino in casa penso non fosse durato molto, però
la lancetta corta della sveglia mi pareva sempre inchiodata nel mezzo del
mattino. Il mio problema era bruciare la pena dell'attesa e quella volta, in
parte, ci riuscii sfregando e consumando uno ad uno tutti i fulminanti di una
scatola. Altre volte davo sfogo alla curiosità di vedere cosa c'era dentro alle
cose. Sventrai un bambolotto spelacchiato e, quando lo vide, la mamma disse:
“Hai fatto bene.” Un'altra volta aprii, con un coltello in funzione di
cacciavite la grossa sveglia sepolta in un cassetto del canterano, le cui
rotelle dentate si sparsero sul pavimento a mattoni e il ricciolo di una molla
schizzò chissà dove rasentandomi un orecchio. La mamma disse: “Era vecchia.”
C'era poi il salvadanaio di coccio sulla vetrina, alto quanto il boccale
dell'acqua. Era un ometto panciuto, dalle belle gote rubiconde, con la feritoia
sulla gobba per l'introduzione delle monete. Aveva gli occhi grandi che mi
guardavano provocatori. Volli vedere com'era fatto dentro. Lo mandai in tanti
pezzi e quegli occhi continuarono a fissarmi separatamente.
Io non mi
giustificai, la mamma volle pensare che mi fosse caduto e disse: ”Pazienza.”
Quando la
mamma veniva per preparare il pranzo, mia sorella tornava dalla scuola e spesso
arrivava anche il gatto, per me finiva la prigionia nel silenzio. Episodi
lontani, sempre più, non felici eppure velati di nostalgia. Ogni tanto mi viene
spontaneo ripassarli tutti, ma quello che m'ha a lungo lasciato un senso di
pentimento mi porta sulla ribalta la suora. Il fatto è questo: una mattina mia
madre era rimasta a casa e la religiosa, che doveva farle una puntura, era in
piedi lì in mezzo alla cucina, solenne, con la grande campana della gonna che
la copriva fino quasi a terra. Allora, d'improvviso, fui rapito dal desiderio
incontenibile di sapere cosa ci fosse sotto quella cupola scura. Cominciai a
gattonare, sollevai il sipario e guardai in alto. La monaca si divincolò,
incespicò, quasi cadde. Vidi o ebbi l'impressione di vedere, nel buio, il
pallore di un petalo lunare. Successe un gran trambusto e io feci a tempo a
scappare a gambe levate. Mia madre mi rincorse con le grida anche quando ero al
largo, nella strada. Di seguito mi nascosi nel sottoscala per un paio di ore.
Capii d'averla fatta grossa.
Da quella
volta non ho più rotto gli oggetti per guardarli dentro. Mentre non m'è mai
passata la voglia di vedere cosa nascondono certe campane.
Franco Ruinetti
Illustrazioni di Man