RIMBALZI
DELLA MEMORIA
Il
Monte in
fiamme
Spettacolo
bello e terribile. Era notte, la guerra si accaniva, dicevano che
passava il fronte'. Io, ragazzetto, i miei genitori e diverse altre
persone, sfollati in una casa nascosta nel bosco, tutti in piedi
nell'aia, si assisteva al cannoneggiamento di Monte Santa Maria
Tiberina che sorge, a forma di piramide, sul versante opposto della
valle. Mi pareva di vedere un enorme pagliaio infuocato e ancora,
dopo tanti decenni, ho davanti a me quelle lingue mobili ardenti che
squarciano il blu della notte dilatandosi in un alone tra i sussulti
delle esplosioni. Il cane guaiva, che mi pareva un pianto sommesso.
Andai alla sua grotta scavata nel pagliaio dove era legato alla
catena e mi sedetti accanto a lui che tremava e aveva il cuore
impazzito. Il silenzio pesava come fosse di piombo e le persone
presenti, che avevano disertato letti e giacigli, restavano immobili.
Nessuno fiatava, ma ad un tratto, ricordo distintamente l'espressione
di uno che chiamavano 'direttore': "Spettacolo bello e
terribile: è un ossimoro."
Pensai
che la parola da me sconosciuta, fosse un'imprecazione. Ma, molto
tempo dopo, ripensandola capii che quella volta era stata pronunciata
fuori luogo, forse per uno sfoggio di cultura.
A
Gravina in Puglia
Nel
'62, dopo aver superato un concorso, mi trasferii a Gravina in
Puglia. La mia vicenda si svolse al contrario: mentre il flusso
migratorio in cerca di lavoro aveva per destinazione il nord, io
andai nel meridione. Quella città mi apparve giovane, cullata in uno
sfarzo di luce, con i carri trainati dai ciucci, con strade e piazze
vive per quei ragazzini liberi, sciolti, per l'azzurro gremito di
rondini e falchetti. Abitavo in due stanzette all'ultimo piano. Di
fronte alla finestra di camera s'ergeva impettito il campanile del
duomo col suo grande orologio, occhio del tempo. Non avevo bisogno
della sveglia. La porta-finestra dell'altra stanza si apriva sulla
terrazza confinante con un'altra terrazza dove, spesso, soprattutto
di notte, seduto su uno sgabello, fumava il sigaro o la pipa il
pensionato Ruggiero (con o senza la i, inutile vexata quaestio), che
sua moglie sfrattava dalla camera perché con quell'odore o puzzo non
poteva dormire.
Io
saltavo il muretto che divideva le terrazze e andavo a sedermi di
fronte a lui.
"Una
di queste notti, mi disse, andiamo a trovare un amico."
Dialogavo
volentieri con Ruggiero che, pur essendo gravinese 'purosangue' con
me parlava la lingua 'sciacquata in Arno'.
"Sarà
amico tuo, io non lo conosco."
"Sarebbe
amico di tutti ma nessuno lo va a trovare. Solamente io, ogni tanto,
gli faccio un pò di compagnia".
Quella
volta, erano già le dieci della sera, mi disse:
"Andiamo."
"Adesso!
risposi, questa non è l'ora per fare visita ad una persona."
"Non
ti preoccupare, per lui non c'è confine tra notte e giorno."
Ci
ritrovammo nella strada, spingemmo a mano, fuori dal fondo, la
vecchia Topolino, che gracchiò a lungo quando la mise in moto.
"Si
potrebbe andare a fari spenti."
Infatti
la luna stendeva la sua luce vivida sulle Murge deserte.
"Sembra
d'essere soli al mondo!"
Percorsa
una decina di chilometri lasciammo la strada asfaltata per imboccare
una carrareccia sconnessa. Ci fermammo davanti ad una costruzione
bassa, col tetto a capanna, nella quale abitava lo 'zio Delio', che
era un uomo dall'età di mezzo e di media statura.
"Finalmente
ti rivedo, chi hai portato?"
"E'
un amico, abita da poco tempo vicino a me, viene da lontano."
Ci
fece sedere attorno ad un tavolo, ci offrì more nere di gelso,
olive, noci, poi cominciò a parlare di sé perché voleva dirmi chi
era. Si alzò, prese da una mensola un fiasco di vino e dei
bicchieri.
"Servitevi."
Alla
fioca luce della lampada nuda, senza piatto di smalto o paralume,
vidi che aveva un occhio rosso. La pupilla azzurra affogava nel
fuoco.
"Sono
un libro aperto, disse rivolgendosi a Ruggiero, così il tuo amico
sarà libero di rimanere o di andarsene. Ma se rimarrà e tornerà mi
farà piacere."
E quel
libro raccontò la storia bella di un amore che è dono di Dio,
triste perché quel sentimento era stato offeso, umiliato e perché
la morte glielo aveva strappato, ma non cancellato. Parlava e gli
scivolavano lacrime mute dall'occhio sereno e da quello infiammato.
Ricordò l'imperatore Adriano e Antinoo, un pomodoro che una mano
anonima gli scagliò in faccia, le derisioni, gli scherni. Parlò,
parlò sempre a testa bassa e quando lo salutammo, a notte fonda, io
ero diverso perché capii che l'amore non ha confini, è assoluto,
non sezionabile in categorie. Pensai che condannare un omosessuale è
come ostracizzare qualcuno per il solo fatto che parla un'altra
lingua.
Quando
stavo per salire in macchina, colpito da improvviso affetto, tornai
indietro, abbracciai e baciai lo zio Delio promettendogli che sarei
tornato a trovarlo.
Ma non
l'ho più rivisto perché lasciai la Murgia luminosa per approdare al
settentrione in un paese sul lago di Garda.
All'epoca
di Lascia o raddoppia?
Nell'arco
di poco tempo l'avvento della TV aveva fatto cambiare le abitudini
delle genti. In special modo, il giovedì sera, le strade e le piazze
del paese, anche nella bella stagione, erano deserte a tutto
vantaggio dei bar e di qualche circolo per tesserati che avevano
istallato questo apparecchio. Il giorno in mezzo alla settimana era
diventato più importante e atteso delle feste e Mike Bongiorno aveva
l'aureola del semidio venuto dall'America. Io, che allora avevo
appena cominciato a radermi la peluria sulle gote, soffrendo un poco
di claustrofobia, entravo di rado nella sala affollata. Una sera,
mentre ero seduto fuori dal locale e fumavo la sigaretta del
dopocena, arrivò col suo lento dondolio Pietro Sordo e si accomodò
vicino a me.
"Che
fai, non entri?"
"E'?
Che hai detto?"
Gli
avevo parlato senza guardarlo, così che non poteva leggere le parole
sulle labbra. Gli ripetei la domanda.
"C'è
troppa gente, rispose. Poi non sento e non mi diverto."
E
capitò 'Zucco', più o meno mio coetaneo, che, di recente, aveva
ereditato villa, case, fattoria. Correva voce che non fosse
un'aquila, che era avaro, ma anche scialacquatore. Alcuni dicevano
che suo padre era morto di crepacuore per il figlio sconsiderato,
altri sapevano che era schiattato durante l'ultima battaglia d'amore
con una bionda di facili costumi, strepitosamente bella.
"Guarda
chi si rivede! Dove sei stato per tanto tempo?
"A
caccia, sono qui e pago da bere."
Aveva
la statura di un orso e la voce di un pulcino.
"Sbaglia
chi non crede nei miracoli!"
"Hai
ammazzato un elefante?"
"Tu
non entri, gli domandai, a vedere Lascia o raddoppia?"
"No,
rispose, perché le interrogazioni non mi piacciono, smisi apposta di
andare a scuola."
Pietro
Sordo ordinò tre bicchieri di albana e i biscotti cantucci
"Morti
di fame, pigolò Zucco, volete anche la pastasciutta?"
"Bravo
Pietro, dissi, così si fa la zuppa, non capita spesso."
L'ereditiero
cominciò a parlare. Non si poteva interromperlo, come il prete alla
predica. Ricordo alcune teorie: i professi, cioè preti, frati,
monache, vivono contro natura perché la castità imposta non è
virtù, ma castigo, ergastolo sessuale, martirio. Poi, senza
soluzione di continuità rivelò che aveva inventato delle molle da
inserire nei tacchi delle scarpe per camminare e correre agili.
Sostenne, inoltre che andava cambiato l'ordine negli indirizzi sulle
buste: prima la città, poi la via, infine cognome e nome.
Il
vino e i biscotti finirono presto, il monologo no, continuò
indefesso fino a quando una fiumana di gente uscì fragorosa dal
locale e anche noi, con i saluti, chiudemmo all'ultima ora le porte
di quella giornata.
La
Liana
In
fondo al viale, un poco ostacolata dalla siepe di bosso, la
intravvidi, alta, come un'apparizione nella lontananza del ricordo.
Avanzava lenta. La guardavo attento dalla mia postazione di
avvistamento, che era la sedia fuori dal bar. Man mano che procedeva,
pur essendo ancora lontana, la sua figura acquistava certezza. Mi
sembrava proprio lei, la Liana, che era scomparsa da vent'anni, forse
di più. Quando eravamo adolescenti ci avevo trascorso qualche
pomeriggio assieme, nel salotto di casa sua per studiare Croce,
Gentile fino al Superuomo di Nietzsche. Come era bella! M'aveva
scaldato il cuore e il candore lunare del suo volto, incorniciato
dall'alone biondo della chioma, mi era albeggiato con una certa
insistenza nella mente. Ma non altro. Perché, secondo me,
apparteneva ad un pianeta diverso dal mio.
Era
lei, era lei, la Liana. Allora mi alzai e le andai incontro. Il
biondo dei capelli, evidentemente, non era più il suo, però mi
appariva ancora, come un'aureola d'oro.
Accennò
un sorriso, mentre continuava a camminare sospingendo il
deambulatore. Ci scambiammo due baci a fior di guance, quindi ci
allontanammo, io da una parte, lei dall'altra. In un silenzio che
diceva tutto.
Franco Ruinetti