Era
quasi estate e io ero ragazzo. Dormivo in una stanza poco più larga del letto,
alta, sotto la gronda, con la finestra che dava sulla stretta via lastricata,
che tenevo aperta per il fresco, per vedere la luna, le nuvole, le stelle e mi
sembrava di essere tra la terra e il cielo.
Mi
piaceva la mia cameretta. Andavo a letto presto, verso le 10 della notte, ma
non dormivo subito. I rumori della strada lentamente si spegnevano.
Tra
gli ultimi erano quelli del barrocciaio, che parlava alla cavalla a voce alta,
come ad un'amica. Infine sentivo sbattere le porte della bettola, da dove erano
appena usciti i pochi avventori più incalliti, che si scambiavano la buonanotte
con qualche parolaccia e qualche fiocco di bestemmia.
Mi
piaceva il profumo dei tigli schierati in triplice ordine fuori porta. Arrivava
fino a me, era intenso. Pensavo che un angolo come il mio, tutto mio, lo
potesse avere solo un principe delle favole.
Quindi,
nel nulla del silenzio, le palpebre diventavano pesanti per consegnare al sonno
la fatica delle corse fatte durante la partita di calcio con i compagni.
Ma
una volta mi ridestò dalla densità del torpore una voce ora acuta, poi
modulata, piagnucolosa che rimbalzava sulle facciate opposte delle case e
saliva verso l'alto.
M'affacciai
e vidi Bombolo che chiamava disperatamente la Licia. Guardava verso la sua
finestra, levava le braccia, si metteva in ginocchio in mezzo alla strada, si
rialzava: “Licia, Licia, amore mio, vieni fuori.” Aveva un fiore in mano, lo
gettava in terra, poi ne stringeva lo stelo tra i denti.
La
scena si svolgeva nel cono di luce della lampada comunale, come in un
palcoscenico. Bagliori impietosi trascorrevano sul deserto del cranio.
Lo
spettacolo ebbe alcune repliche.
“Non
so cantare, ma suono la musica del cuore, Licia, amore, amore... e questa è la
serenata alla mia amata... affacciati, sei la più bella... il sole della
notte.” Così diceva pressappoco, mentre a tratti strapazzava l'armonica a
bocca.
Alcuni
si sporgevano dalle finestre brontolando per non poter dormire, ma sicuramente
incuriositi e divertiti, come me.
Ora
ricordo una breve conversazione udita dal fornaio dove ero andato a portare una
casseruola con le zucchine ripiene da cuocere. “L'amore, sentenziò Checco, è
soprattutto demenza giovanile che solo il tempo cura e risana...Però
la Licia ha il cuore di ferro, che aspetta? Ormai il principe azzurro col
cavallo bianco non la cerca più, è andato da un'altra parte.”
Ricordo
anche che una donna, vicina di casa, con la testa tra i gerani del davanzale,
gridò: “Licia, fatti vedere, digli di sì, così la smette.” E lei, finalmente,
in camicia da notte, si fece vedere: “Non ci penso proprio, diglielo te di sì:”
Bombolo
tirò il fiore in aria e si agitò rabbioso: Sei divina, ma diventi una bestia
con le corna, la coda, la bava alla bocca.”
Una
notte lo sorpresero il temporale e la grandine, ma lui, imperterrito,
continuava la sua sceneggiata. L'amore superava freddo, lampi, tuoni. Io
osservavo incollato al riparo dietro le gelosie della persiana chiusa.
“Licia,
mia Licia, non lasciarmi infradiciare, solo l'amore può mettermi al riparo!
Allora
vidi aprirsi il portoncino di casa, Bombolo scomparve, il palcoscenico fu
deserto, il sipario si chiuse.
Pensai:
è' vero: chi la dura la vince. Batti e ribatti il cuore di ferro aveva ceduto,
segno che era duttile, dolce.
Passò
il tempo e seppi poi che da quella valanga d'amore, in tre anni, sbocciarono
quattro figli. Un parto fu gemellare. Bombolo, bravo carrozziere, è stato buon
marito e padre.
Con
quelle declamazioni fuori ordinanza ruppe il riserbo, cioè le catene del più
dolce e tenace dei sentimenti che presiede al perpetuarsi delle generazioni. Le
sue serenate, che colorarono le notti, restano scritte negli annali del paese.
Franco Ruinetti