LE MONETE AVANZATE AL
FASCISMO
Dai 9 ai 13-14 anni di età ho vissuto un
periodo intenso di relazioni e la giostra dei giorni era bella. Quella è stata
la stagione che ricordo con la luce dell'azzurro infinito, il resto è penombra
con gorghi profondi e qualche bagliore. La vita era tutta vacanza, lo era anche
la scuola. E questo l'ho pensato dopo, allora non potevo saperlo. La maestra mi
dava 'bene' e 'bravo' nei diari e nei temi mentre per risolvere problemi mi
aiutava, ma col sorriso e con una carezza sulla testa.
Mi piaceva giocare a pallino e boccino con
le palline di coccio o vetro colorato. Non avevo soldi per comprarle, ma,
gareggiando con i compagni, le vincevo spesso perché ero diventato bravo
allenandomi sul pavimento liscio del corridoio di casa. Mia madre non capiva,
era preoccupata. Mi diceva di smettere minacciando di mandarmi in seminario.
Ma il vero grande interesse per lungo
tempo, del quale m'è rimasta traccia, sono state le monete metalliche avanzate
al fascismo. Ce n'erano tante e per noi ragazzi valevano ancora, continuavano
ad avere corso legale. Le scambiavo con Ciclone, Topolino, Madrake, di cui mi
piaceva di più l'assistente Lothar, il forzuto con i pantaloni e il fez rossi e
con quella mezza canottiera fatta con una pelle di leopardo. Con quella valuta
che non valeva più, ci si giocava e gareggiava a battimuro. Si scagliava il
soldo da una certa distanza e vinceva quello che andava più vicino al muro. Io
partecipavo sempre con lo stesso pezzo da due lire che, credevo, mi obbedisse di
più. Tenevo da conto quella moneta spesso vincente, l'avevo sempre con me, in
tasca. Una mattina la maestra me la vide riprodotta sul quaderno. Il soldo
m'era riuscito perfettamente definito. Avevo in parte coperto la pelata del re
con uno zuccotto corredato del pon-pon. L'insegnante vide e si meravigliò per
quell'esito che attribuì al mio talento artistico.
"Sei proprio bravo, hai il dono del
disegno!"
Allora in quattro e quattr'otto le
dimostrai come era facile fare l'artista. Misi il mio soldo da competizione
sotto un foglio del quaderno, vi feci scorrere sopra il lapis e s'affacciò nel
nulla della pagina, in bianco e nero, Vittorio Emanuele III con i suoi
baffetti.
Quasi in fondo alla mia strada, in
prossimità di un incrocio, proprio sotto un arco contrafforte, c'era la bottega
del Nènno, un omone che vendeva bracia, carbone e rattoppava, specialmente con
monete e medaglie di rame, che teneva in una scatola di legno, paioli, pentole,
padelle. Il locale era alto, stretto, buio anche a mezzogiorno. Parlo di lui
perché ogni tanto gli facevo volentieri visita. Mi figuravo di vedere il dio
Vulcano che forgia le folgori per Giove. Io gli detti diversi pezzi da 10
centesimi in cambio di caramelle, delle quali era ghiotto e ne aveva sempre
nella tasca sulla pettorina del grembiule. Una volta che doveva mettere la
toppa ad un calderone bucato, mentre lo guardava studiandolo, mi chiese di
prendere nella scatola un medaglione di rame e portarglielo. Era bello,
pesante, rappresentava la testa del duce insaccata nell'elmo, che era
circondato dalle parole 'CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE'. Il Nènno lavorò alla
forgia, all'incudine e, ad opera compiuta, disse:
"Pover'uomo, è finito nel culo del
paiolo!"
Quando camminavo, nelle mie tasche,
suonavano le monete decadute. Avevano il fascino mesto dei nobili, anche loro,
fuori corso. Ne vinsi parecchie e, all'ultimo, le riposi tutte dentro un
cassetto di un vecchio comodino. Le lasciai chiuse lì col tintinnio delle
battute sui pavimenti, che variava da metallo a metallo.
Poi, anni dopo, anzi decenni, ho incontrato
tante valute del fascismo esposte nei mercatini dell'usato. Allora sono salito
in soffitta, ma non ho ritrovato il cassetto e neanche il comodino. Peccato! Ho
provato l'impressione di aver perduto l'età serena nella polvere del tempo.
Però, almeno una volta, per caso e quasi di
sfuggita, ho rivissuto una scintilla di felicità.
Ero in Spagna perché avevo, con altri
colleghi, portato una quarantina di studenti a visitare un grande museo.
L'accordo era che alle 17 in punto ci dovevamo ritrovare tutti, per il rientro,
nella piazza antistante l'edificio. Ma le raccomandazioni e la puntualità
passarono in cavalleria. Allora, per ingannare l'impazienza dell'attesa mi
saltò in mente di giocare a battimuro, con le monete da 100 lire che mi
pesavano nel borsello, con i pochi alunni disciplinati rispettosi dell'orario
stabilito. In men che non si dica il numero dei partecipanti aumentò. Si
fermarono a gareggiare alcune persone di varie lingue e con differenti valute.
Circa nello spazio di tre quarti d'ora il mio porta monete dimagrì. Ma fui
contento per la magia che aveva annullato il tempo. Ero tornato ragazzo.
Franco Ruinetti