La mia strada
Torno spesso al paese.
Percorro sempre il serpentone della Marecchiese. Dopo ogni curva c'è un
panorama diverso. Non mi stanca, mi piace. Ci ho consumato tre o quattro
macchine. Per me quel fiume è di famiglia. Nel Seicento, travolto dalla piena,
ci morì Stefano, un mio ascendente diretto, di circa 50 anni, vedovo, che
andava dalla morosa a Pennabilli. Ho ricostruito questa storia nell'Archivio diocesano
di Sansepolcro, che, appunto, è la mia frequente destinazione, luogo delle mie
vacanze, alba della nostalgia.
Conosco
il percorso palmo a palmo. Fino a 20 anni fa, forse di più, facevo sosta a Ca
Raffaello, nell'osteria de La Zaira dove, mi raccontarono, si era fermato
Vittorio Emanuele III con tutta la corte per mangiare, come era mio costume,
pane e formaggio.
Addio
Zaira: erano piacevoli quegli intervalli e quegli spuntini.
Superato
il Valico di Viamaggio si spalanca davanti la Valtiberina, culla e palcoscenico
della mia giovinezza.
Torno
nella casa paterna, cinquecentesca, dove sono nato, che ha l'ingresso ed il
prospetto principale nella via Maestra, mentre la mia camera si affaccia sulla
via Mazzini, antica via del Panìco. Ho dormito in quella stanza fino alla mia
maggiore età, che allora arrivava più tardi e lì dormo ancora quattro o cinque
volte al mese.
E
quella è la 'mia' strada.
Sotto
di me c'era il forno più grande del paese, dove la giornata lavorativa iniziava
verso le due del mattino. Provocava un gran caldo a tutta la casa, per cui
d'estate dovevo spalancare le finestre, ma nelle notti d'inverno mi rigiravo in
un tepido nido di piume. Talvolta, se mi capitava di non dormire, veleggiavo
negli acuti tenorili del figlio del fornaio e del suo collega salariato.
Possedevano, a mio giudizio, il talento canoro che mi incantava, con un pizzico
di invidia.
Cantavano
talvolta, nelle ore piccole, i lieti calici che la bellezza infiora, così
vedevo nel buio scintillare i bicchieri e i dolci sorrisi. Volavo nell'infinito
con le ali dorate del Nabucco. Poi, nell'orizzonte della notte, mi apparivano i
castelli di Eulalia Torricelli o le lucciole delle capinere.
Il
rumore dell'impastatrice non copriva le melodie.
Prima e dopo
Intorno
agli anni '50 la strada era ancora viva. La svegliava di buon mattino il gallo
della 'sora' Checca, che aveva anche qualche gallina. Io scendevo giù a giocare
a tamburello, ma giocavo raramente per l'invadenza dei più grandi. E, secondo
me, c'era un altro pollastro, il quale, più che gallo era un pavone. Lo
identificavo nel bidello che faceva la ruota con quei grandi baffi d'oro. C'era
sempre gente, soprattutto nella bella stagione. Il calzolaio si sistemava
davanti a casa col suo deschetto e spesso batteva il cuoio sull'incudine a tre
piedi di ferro. Qualche donna portava fuori la seggiola, prendeva il fresco,
stava in compagnia, faceva la calza o era intenta al tombolo. Qualcuna si
riposava dalle faccende o dal battibecco col marito, seduta sul gradino della
porta. Davanti al forno c'era la bottega del sellaio. Lo sentii dire che non
poteva insegnare il suo mestiere al figlio perché "i motori manderanno in
pensione i cavalli e non ci vorranno più le selle." Era soddisfatto che il
suo ragazzo studiasse da ragioniere. Avrebbe voluto che anche alle automobili
occorressero i paraocchi, le briglie e gli altri finimenti.
Nel
mezzo del selciato si vedeva il disegno della 'campana' tracciato con una
scheggia di coppo o di mattone. Consisteva in una successione di rettangoli e
cerchi dove fare scorrere un sasso calciato a gamba zoppa dalle ragazze, che
avevano le calzette bianche. Giocavano, gareggiavano, facevano il chiasso che
era la contentezza di quell'età e chi vinceva non si aspettava alcun premio.
Di
sera tornava Paolone con la cavalla e il baroccio. Teneva in mano la cavezza e
sussurrava all'orecchio della bestia. Gli zoccoli suonavano note lucenti sulle
pietre.
Contigua
alla stalla c'era la bettola della Padella, che ricordo robusta e non ho mai
saputo quale fosse il suo vero nome. Frequentavano il locale solo gli uomini
che si giocavano il quartino o il mezzo litro di vino alla morra e dal mio
letto sentivo vociare i numeri fino a tardi, verso le 11 della notte.
Poi
gli anni frullarono con la trottola del mondo: tutto diviene, niente è, dico
così prendendo a braccetto l'antica filosofia, la strada è cambiata, ma è la
mia, come a dire che il sentimento resta, non diviene. Poi distesero sopra le
belle pietre millenarie una spalmata di asfalto, che è una coperta stinta,
rattoppata. Raramente, durante le giornate, ora compaiono in fretta persone e
ragazzi. Il vocio dei giochi e i rumori dei mestieri sono affogati nel passato.
Le automobili sono piantate lì in fila indiana, senza soluzione di continuità,
sul lato destro del senso unico. Il sole, che passa sopra, scende dai tetti a
mezzogiorno.
Per
tutto il giorno la strada dorme in un'atmosfera rarefatta surreale, ma, alle
undici di sera, per anni e anni, si è svegliata improvvisa, fragorosa. Mi
pareva di dormire dentro un tamburo impazzito. Gli schiamazzi e le musiche di
cento trattori sfondavano le notti. Era sempre festa organizzata dal pub e dai
due bar che mi pareva non avessero orari di chiusura. Da qualche tempo va
meglio e spesso riesco a chiudere gli occhi, solo talvolta in occasione di
feste inventate, stupide, programmate, si scatenano musiche, cantanti fino alle
ore del giorno dopo per richiamare un formicolio di giovani e non giovani. Le
risate delle ragazze sono spilli e chiodi nelle orecchie. Comunque il sindaco
nuovo, appena eletto, ha posto un freno, è riuscito, almeno in parte, a far
rispettare la legge di natura, che stabilisce l'alternanza tra la veglia e il
riposo.
Una
volta, per tentare di contrastare i trionfi delle bolge notturne, presi una
iniziativa. Chiesi ai residenti in zona di partecipare all'installazione di
Radio Maria per cospargere preghiere su quel tumulto infernale. Dapprima la
proposta fu accolta con entusiasmo. Poi alcuni interessati si dissociarono col
dire che avremmo fatto il reato di ostacolare il libero commercio. Uno,
addirittura, paventava che potevamo essere denunciati per schiamazzi notturni.
Allora mi ritirai con la coda tra le gambe, ma mi sarebbe piaciuto che le
competenti autorità sanzionassero, condannassero l'Ave Maria e il Padre Nostro.
Ripeto:
è diversa, ma è sempre la mia strada. Quando mi capita di affacciarmi alla
finestra la vedo piena della mia fanciullezza e m'invade sempre un ricordo, che
è la fragranza del pane appena sfornato.
Franco Ruinetti