martedì 21 aprile 2020

La mia strada (by Franco Ruinetti)

 




La mia strada
Torno spesso al paese. Percorro sempre il serpentone della Marecchiese. Dopo ogni curva c'è un panorama diverso. Non mi stanca, mi piace. Ci ho consumato tre o quattro macchine. Per me quel fiume è di famiglia. Nel Seicento, travolto dalla piena, ci morì Stefano, un mio ascendente diretto, di circa 50 anni, vedovo, che andava dalla morosa a Pennabilli. Ho ricostruito questa storia nell'Archivio diocesano di Sansepolcro, che, appunto, è la mia frequente destinazione, luogo delle mie vacanze, alba della nostalgia.
Conosco il percorso palmo a palmo. Fino a 20 anni fa, forse di più, facevo sosta a Ca Raffaello, nell'osteria de La Zaira dove, mi raccontarono, si era fermato Vittorio Emanuele III con tutta la corte per mangiare, come era mio costume, pane e formaggio.
Addio Zaira: erano piacevoli quegli intervalli e quegli spuntini.
Superato il Valico di Viamaggio si spalanca davanti la Valtiberina, culla e palcoscenico della mia giovinezza.
Torno nella casa paterna, cinquecentesca, dove sono nato, che ha l'ingresso ed il prospetto principale nella via Maestra, mentre la mia camera si affaccia sulla via Mazzini, antica via del Panìco. Ho dormito in quella stanza fino alla mia maggiore età, che allora arrivava più tardi e lì dormo ancora quattro o cinque volte al mese.
E quella è la 'mia' strada.
Sotto di me c'era il forno più grande del paese, dove la giornata lavorativa iniziava verso le due del mattino. Provocava un gran caldo a tutta la casa, per cui d'estate dovevo spalancare le finestre, ma nelle notti d'inverno mi rigiravo in un tepido nido di piume. Talvolta, se mi capitava di non dormire, veleggiavo negli acuti tenorili del figlio del fornaio e del suo collega salariato. Possedevano, a mio giudizio, il talento canoro che mi incantava, con un pizzico di invidia.
Cantavano talvolta, nelle ore piccole, i lieti calici che la bellezza infiora, così vedevo nel buio scintillare i bicchieri e i dolci sorrisi. Volavo nell'infinito con le ali dorate del Nabucco. Poi, nell'orizzonte della notte, mi apparivano i castelli di Eulalia Torricelli o le lucciole delle capinere.
Il rumore dell'impastatrice non copriva le melodie.

Prima e dopo 

Intorno agli anni '50 la strada era ancora viva. La svegliava di buon mattino il gallo della 'sora' Checca, che aveva anche qualche gallina. Io scendevo giù a giocare a tamburello, ma giocavo raramente per l'invadenza dei più grandi. E, secondo me, c'era un altro pollastro, il quale, più che gallo era un pavone. Lo identificavo nel bidello che faceva la ruota con quei grandi baffi d'oro. C'era sempre gente, soprattutto nella bella stagione. Il calzolaio si sistemava davanti a casa col suo deschetto e spesso batteva il cuoio sull'incudine a tre piedi di ferro. Qualche donna portava fuori la seggiola, prendeva il fresco, stava in compagnia, faceva la calza o era intenta al tombolo. Qualcuna si riposava dalle faccende o dal battibecco col marito, seduta sul gradino della porta. Davanti al forno c'era la bottega del sellaio. Lo sentii dire che non poteva insegnare il suo mestiere al figlio perché "i motori manderanno in pensione i cavalli e non ci vorranno più le selle." Era soddisfatto che il suo ragazzo studiasse da ragioniere. Avrebbe voluto che anche alle automobili occorressero i paraocchi, le briglie e gli altri finimenti.
Nel mezzo del selciato si vedeva il disegno della 'campana' tracciato con una scheggia di coppo o di mattone. Consisteva in una successione di rettangoli e cerchi dove fare scorrere un sasso calciato a gamba zoppa dalle ragazze, che avevano le calzette bianche. Giocavano, gareggiavano, facevano il chiasso che era la contentezza di quell'età e chi vinceva non si aspettava alcun premio.
Di sera tornava Paolone con la cavalla e il baroccio. Teneva in mano la cavezza e sussurrava all'orecchio della bestia. Gli zoccoli suonavano note lucenti sulle pietre.
Contigua alla stalla c'era la bettola della Padella, che ricordo robusta e non ho mai saputo quale fosse il suo vero nome. Frequentavano il locale solo gli uomini che si giocavano il quartino o il mezzo litro di vino alla morra e dal mio letto sentivo vociare i numeri fino a tardi, verso le 11 della notte.
Poi gli anni frullarono con la trottola del mondo: tutto diviene, niente è, dico così prendendo a braccetto l'antica filosofia, la strada è cambiata, ma è la mia, come a dire che il sentimento resta, non diviene. Poi distesero sopra le belle pietre millenarie una spalmata di asfalto, che è una coperta stinta, rattoppata. Raramente, durante le giornate, ora compaiono in fretta persone e ragazzi. Il vocio dei giochi e i rumori dei mestieri sono affogati nel passato. Le automobili sono piantate lì in fila indiana, senza soluzione di continuità, sul lato destro del senso unico. Il sole, che passa sopra, scende dai tetti a mezzogiorno.
Per tutto il giorno la strada dorme in un'atmosfera rarefatta surreale, ma, alle undici di sera, per anni e anni, si è svegliata improvvisa, fragorosa. Mi pareva di dormire dentro un tamburo impazzito. Gli schiamazzi e le musiche di cento trattori sfondavano le notti. Era sempre festa organizzata dal pub e dai due bar che mi pareva non avessero orari di chiusura. Da qualche tempo va meglio e spesso riesco a chiudere gli occhi, solo talvolta in occasione di feste inventate, stupide, programmate, si scatenano musiche, cantanti fino alle ore del giorno dopo per richiamare un formicolio di giovani e non giovani. Le risate delle ragazze sono spilli e chiodi nelle orecchie. Comunque il sindaco nuovo, appena eletto, ha posto un freno, è riuscito, almeno in parte, a far rispettare la legge di natura, che stabilisce l'alternanza tra la veglia e il riposo.
Una volta, per tentare di contrastare i trionfi delle bolge notturne, presi una iniziativa. Chiesi ai residenti in zona di partecipare all'installazione di Radio Maria per cospargere preghiere su quel tumulto infernale. Dapprima la proposta fu accolta con entusiasmo. Poi alcuni interessati si dissociarono col dire che avremmo fatto il reato di ostacolare il libero commercio. Uno, addirittura, paventava che potevamo essere denunciati per schiamazzi notturni. Allora mi ritirai con la coda tra le gambe, ma mi sarebbe piaciuto che le competenti autorità sanzionassero, condannassero l'Ave Maria e il Padre Nostro.
Ripeto: è diversa, ma è sempre la mia strada. Quando mi capita di affacciarmi alla finestra la vedo piena della mia fanciullezza e m'invade sempre un ricordo, che è la fragranza del pane appena sfornato.


Franco Ruinetti