ME NE VADO
Ho una casa nel bosco a mezza costa del monte. L'ho avuta per eredità e tra non molto tempo crollerà come tante altre. Mi rende di tasse. Non la metto in vendita per non regalarla, poi perché non voglio fare commercio dei miei sentimenti e degli avi. Da giovane ci andavo spesso per riparare il tetto, per accomodare le porte forzate dai vandali, per ripulire il fosso del fontanile o per vari altri motivi.
Ora ci vado di rado, quando posso. Ed è sempre un'evasione dalla routine. Anzi no: non è vero, ci vado spesso, ma il più delle volte col pensiero, di giorno e di notte. E tali uscite, sogni fuori dal sonno, sono brevi perché mi chiama il telefono, perché mia moglie mi dà ordini e così via. Alzo la vela della mente e me ne vado. Volo nella libertà.
Ma ora mi piace di nuovo ricordare quella volta, sono passati molti anni, che ero andato lassù fisicamente. In un angolo del vascone, nudo di acqua, vidi un leprotto immobile, come in castigo. Era prigioniero. Sembrava non percepisse la mia presenza. Non era morto perché si reggeva seduto, composto. Mi apparve stordito e perso nella disperazione.
Mi calai giù, lo presi in collo. Non oppose resistenza, come fosse un gatto domestico. La pelliccia fulva era una matassa di morbidezza. Le orecchie mi accarezzavano le guance. Sentivo il suo cuore precipitoso nel palmo della mano. Incontrai i suoi occhi. Avevano due lucciole di un giallo profondo ignoto alle luci di Van Gogh.
E mi capita in mente quella Renault vecchia, di colore rosso spento. Era parcheggiata correttamente in un piccolo slargo dove la stradina è più agevole. Tale presenza mi incuriosì, presi informazioni e seppi che era della Lalla che, certamente in compagnia, si appartava dietro un greppo o all'ombra delle ginestre folte alte fino ad un paio di metri. Quella donna, ancor giovane, passava per democratica e benefattrice perché consolava tutti quelli che avevano bisogno d'amore: giovani, vecchi, per soldi o per niente.
Il bosco è il luogo delle mie uscite dalla realtà, che, come le cose più belle, non costano perché non hanno prezzo.
Mi siedo o mi stendo e mi ritrovo là. Non approdo in quello di oggi, che è abbandonato, pieno di sterpaglie, di rovi, bensì in quello di almeno 50 anni fa. Perché il tempo non è un ostacolo, non conta. Allora, prima che qualcuno di mia conoscenza, cialtrone, gli desse fuoco (non ne ho le prove) era tenuto pulito, con tanti castagni querce, lecci dalle chiome come grandi ombrelli, che assorbivano le luci del sole e della luna: un salotto sotto il cielo.
Talvolta rivedo la Vilma che pascola i maiali mentre legge un libro. Le do un bacio sui capelli biondi. Un bacio e l'accenno di un sorriso.
Scappo dal chiuso della stanza dove mi trovo, me ne vado nella vita della fantasia, del desiderio. Là non ti corrono dietro tasse, multe, ingiunzioni, obblighi, divieti, dispiaceri: nebbie e temporali nel cervello. Il bosco è immerso in un incantesimo. Non vi trascorre un alito di vento. Le foglie sono immobili, in attesa. Non ci sono folletti, gnomi, elfi, fate assortite o altri soggetti menzogneri. Vi posso incontrare quelli che lo frequentarono e abitarono nella casa colonica. Talvolta essi tornano dove passarono la loro vicenda terrena. Li vedo, più o meno, come fossero nei negativi delle fotografie, luminescenze nell'ombra densa. Ecco Gianni. Quando abitava nel mondo trascorreva intere giornate lassù. Lo ricordo. Ero ragazzetto. Lui ci andava con le vacche aggiogate alla treggia a prendere la legna, a pulire i fossi, rinforzare i muretti a secco di sostegno, ad innestare i castagni. Considerava il lavoro come festa, con rispetto, non gli pesava. Indossava sempre giacca, cravatta, cappello.
- Ho smesso di respirare quando tu eri bambino. Ti rammenti di me?”
- Sì. Una volta mi regalasti una manciata di more.”
“- Sei diventato vecchio. Ti è venuta la brina sui capelli rimasti come una mezza corona intorno alla testa.”
- La canizie è polvere del tempo. Tempo che per te non c'è più.”
- Invece tu ci sei ancora dentro, in esilio, ma hai l'impressione di essere vivo.”
Franco Ruinetti