FLAKE e TIZZO
Liberi di girare per casa, nel chiostro
interno, ma anche nella strada, soprattutto di poltrire in salotto, due gatti
maschi vivevano insieme nella stessa famiglia coccolati dalle figlie che
studiavano ad alta voce così anche loro avevano imparato qualcosa. Quello
bianco lo chiamavano Flake, quello nero era Tizzo. Il primo era sempre sereno,
mangiava, dormiva, faceva le fusa, non era mai sazio di carezze. L'altro era
ombroso, sull'orlo dell'esaurimento e, siccome i giorni correvano tutti uguali,
secondo lui, la vita durava solo 24 ore. Così Tizzo meditò a lungo la fuga e
una volta, prima di pranzo, scappò, raggiunse furtivo la periferia, si dette
alla macchia e alla libertà vera e assoluta.
Da allora il tempo non fu più lo stesso
per loro due. Quello di Tizzo era pieno: si dava da fare per cercare gli
alimenti, che comunque trovava. Stava sempre allerta per prevenire agguati.
Quello di Flake era diventato un abisso
di vuoto, di lunghi silenzi, solitudini penose anche per l'assenza delle
ragazze andate via a continuare gli studi. Quindi decise di evadere da quella
situazione almeno per un po', di cercare Tizzo. E così fece. Giunse nel bosco,
trovò le sue tracce, lo vide sul ramo di una quercia. Fecero nasino.
“Che bello
rivederti!”
“Anche per
me.”
“Stai
bene, sei ingrassato!”
“La fatica
è tanta, ma non mi manca niente. Resta qui, il posto è grande, tutto per noi”.
“No. Non
voglio fare il barbone.”
“Io non
appartengo a quella categoria che campa a spalle degli altri. Ho scelto
d'essere un primitivo, di vivere secondo natura. Ho ripudiato la civiltà che ti
dà molto, ma ti toglie moltissimo: ti lega con una ragnatela di laccioli e
spesso, sempre più spesso, ti strappa anche la virilità.”
Stettero insieme l'uno appoggiato
all'altro in una unione di vita, nella musica delle fusa, come quando erano in
poltrona o sul letto. Ogni tanto parlavano con miagolii sommessi, ma
comunicavano anche senza l'uso della voce. La luce del giorno faceva il suo
corso, ma loro erano lontani dal tempo.
“Torna a
casa, qui, prima o poi, muori dal freddo o azzannato da una volpe.”
“Qui sono
vero, mangio quello che capita: lucertole, uccelli, topi. Ho lanciato, in una
notte incantata, nel folto della boscaglia, gli acuti dell'urlo e trovato
l'amore, non quello delle ragazze, che è un'altra cosa, ma quello che crea il
futuro. Non torno anche se m'insegue il ricordo dell'amicizia, che è il
sentimento più puro che ci sia. Invece ti ripeto: rimani.”
Flake era tormentato: dopo l'operazione
non sapeva se era ancora un gatto. Era tentato di restare con Tizzo, ma il
calore della famiglia, le seduzioni della civiltà erano forti. In più aveva un
debito di riconoscenza perché lui e il fratello erano stati salvati
dall'inceneritore quando li tolsero dal cassonetto e poi li allevarono col
biberon. Guardò Tizzo, fecero nasino e prese la strada del ritorno. Camminava
lento, meditabondo, quando vide trascorrere un topino. Allora fece un balzo, lo
acchiappò, gli sentì fare l'ultimo fremito, poi lo depose dietro un cespuglio,
perché lui era abituato alle crocchette griffate. Però rifletté che aveva fatto
la caccia, quindi aveva ancora la stoffa del gatto o, almeno, del quasi-gatto.
A casa, durante i lunghi ozi, affogato
nelle piume dei guanciali oppure in grembo alle padrone era pervaso dal
ricordo. Lo pensava, risentiva la sua voce che gli scaldava il cuore, mentre
piangeva senza il conforto delle lacrime. Tornò ancora nel bosco, ma non trovò
più le sue tracce. Non lo rivide. “Chissà a che fine sarà andato incontro il
coraggioso rivoluzionario della comodità?” Nelle lunghe e penose riflessioni
stabilì che lui non era né un leone, né una pecora. Aveva saputo che un
individuo in libertà ha la vita più corta, allora si chiedeva: “Meglio sarebbe
essere un leone o una pecora? E io chi sono?”
Le ragazze, tornate a casa, lo baciavano
e carezzavano. Anche le loro amiche, che lo tenevano in grembo, lo spupazzavano
amorevolmente. Ecco, gli venne l'illuminazione, si convinse e rassegnò: “Sono
una bambola. “
Franco Ruinetti