martedì 30 giugno 2020

I grandi viaggi (by Franco Ruinetti)

 

I GRANDI VIAGGI 

Siamo tutti a cavallo della terra che ci trasporta in un grande viaggio per l'universo e non ce ne accorgiamo o perlomeno non ci facciamo caso. Rotoliamo in continuazione a velocità incredibile, mentre passano tanti panorami, ma noi vediamo o crediamo di vedere sempre lo stesso, più bello di ogni fantasia, vero e surreale.

Questa escursione, uscita, fuga o che so io è a due facce perché, contemporaneamente trascorriamo anche nel tempo, senza vederlo, né toccarlo. Esso veleggia in incognito, non c'è, ma è dentro e fuori. Procede soltanto in avanti, come il volo degli uccelli e il suo unico approdo è l'eternità. Scivola sempre in discesa come il fiume che sfocia nel mare. Viaggiare nel tempo è come salire su un vento sordo. Muto e cieco. L'ultima stazione è l'incommensurabile, l'infinito, cioè, viene da credere, la fine ovvero la morte, che ci tira a sé tipo calamita, e ogni giorno la corda s'accorcia.

Ma che roba è? Perché si accendono certi pensieri? E', invece, meglio nuotare nella luce del sole, della luna e nella salute finché ci assiste. Il resto non lo dobbiamo chiamare, esso non dipende da noi. Però non è facile evitare certi argomenti, che arrivano come guizzi mentali. E ancora: ognuno è salito a bordo della vita in una stazione che non c'era. Prima non si esisteva, poi all'improvviso siamo venuti. Siamo sbarcati in un porto ignoto ad occhi chiusi e non si vedrà neanche l'ultimo approdo perché, si perde la facoltà di vedere. Eppure è bello, bello viaggiare senza sapere né il perché, né la destinazione, uso fagotto, come diceva mio padre, che non aveva studiato nulla di filosofia e teologia o come una valigia. Non sappiamo niente di queste cose, che sono alla base, le più importanti. Siamo ignoranti per natura e in più soffriamo spesso di una molteplicità di mali e malesseri eppure siamo tenacemente legati alla realtà, veniamo carichi dell'istinto di conservazione, amiamo il giorno, il respiro è tenace, connaturato in noi.

Ecco: mi vedo in piedi al polo, dove spunta idealmente l'asse terrestre. Giro su me stesso come una trottola, ma non me ne accorgo e non ho mal di testa. Poi penso che in una bella notte vediamo le stelle fisse sulla volta celeste, lucciole azzurre, sennò con una spolverata di rosso o di bianco. Sembrano ferme e vicine le une alle altre, ma l'impressione è sbagliata. Sono lontane tra loro, così tanto che la misura in chilometri non basta, è così piccola come un moscerino davanti ad un elefante e si muovono in maniera superiore all'umana comprensione. L'unico astro che vediamo spostarsi è la luna. Questa la conosciamo bene, è di casa.



E noi viaggiamo in groppa alla terra, che corre senza un attimo di sosta per tirare il fiato, intorno al sole, poi con lui e con tutta la sua famiglia veniamo precipitati oltre. Ma dove? Il viaggio planetario è in un vagone a cielo aperto, come in una scatola senza coperchio per vedere uno scorcio nella bellezza del mistero. E il pensiero corre, corre ancora, precipita, sbanda.

Meglio sarebbe non pensarci, invece ci penso e mi dispiace vivere senza un motivo palese, come una topa cieca e nel contempo ho paura che tutto finisca. Così mi riconosco legato a filo doppio ad una contraddizione.

Invece ci penso. Come stamattina che sono andato a fare colazione in un bar panoramico. Il giorno d'inizio primavera s'è svegliato nell'azzurro luminoso e io viaggiavo con la vista fino ai limiti della valle e, con la mente navigavo aldilà delle Colonne d'Ercole, nell'inconoscibile. In un lampo m'è comparsa l'astrofisica Hack che spiegava ciò che non si spiega, lambiva le profondità del creato con chiarezza elementare. Disse una volta, lo ricordo, che un infinito lo conosciamo. E' quello dei numeri.

Ad un tratto è comparsa la cameriera con i gelatini per due ragazzi seduti al tavolo non distante dal mio. Bella, appena adolescente, come una favola uscita da un libro, che avevo dimenticato. Mi è passata un'ombra davanti come i titoli di coda e mi è parso che abbia detto: "Il lupo perde il pelo, ma non il vizio." Però mi sono ripreso subito: guardare una moretta non è un vizio.

Uno dei due ragazzi le ha parlato:

"Elisa, sei la fine del mondo!"

Ho pensato che quel giovane, che non è di certo uno scienziato, abbia fatto inconsapevolmente un salto verso l'infinito. Che ha risposto con un sorriso di luce e dolcezza.



Franco Ruinetti

domenica 28 giugno 2020

Esplode l'estate 2020....finalmente ! (3)

Quando inizia l'estate.

L'inizio dell'estate porta in città un'aria di pace
un senso di tranquilla felicità. Anche il bottegaio, la mattina, 

tira fuori una panca e si siede
a leggere il giornale.
l ragazzi hanno finito le scuole. La madre li lascia
andare: devono essere di ritorno per l'ora
di colazione.
E alla sera, dopo cena, ci sono i giardinetti
pubblici che offrono un'ora di fresco.

(G. Raimondi)
 

opera di Riccardo Antonelli


sabato 27 giugno 2020

Esplode l'estate 2020....finalmente ! (2)

opera di Roberto Boccato

IL PRIMO GIORNO D’ESTATE

Il camioncino dei gelati
(la campanella allegra)
passa tra gli alberati
viali residenziali.

I bambini,
che giocano nel prato a perdifiato,
smettono e gli vanno incontro:
i nichelini in mano.

I cani, risvegliati,
abbaiano per chiasso
e gli uccelli cinguettano tra i rami.
Si dondolano, frullano
in alto e in basso.

Una cicala urla
nell'ora meridiana:
è la prima di un'estate
di tenere piogge
che pareva una burla.

È scoppiata e si sente
l'avvenuto momento
da come il cielo vibra
sull’erba radente.
Ogni cosa, nella luce,
ha la trasparenza dell'aria.
C'è un paese al mondo,
dove non sia questa festa?

(A.Barolini)
(da "Elegie di Croton", 1959) 

venerdì 26 giugno 2020

Il traguardo dei 45000 ingressi virtuali al Piccolomuseo di Fighille !


In questi giorni il Piccolomuseo di Fighille taglia il traguardo dei 45.000 biglietti virtuali! Tanti infatti sono i visitatori che hanno cliccato sulla pagina di ingresso al museo e hanno poi visionato le opere e le schede degli artisti.  




giovedì 25 giugno 2020

Esplode l'estate 2020....finalmente !

opera di Fabrizio Filippi
In bilico tra tutti i miei vorrei non sento più quell’insensata voglia di equilibrio che mi lascia qui sul filo di un rasoio a disegnar capriole che a mezz’aria mai farò.. non senti che tremo mentre canto è il segno di un’estate che vorrei potesse non finire mai.

Negramaro 
(dalla canzone “Estate”)

martedì 23 giugno 2020

Bussando all'aldilà (by Franco Ruinetti)

 

BUSSANDO ALL'ALDILA'



"La notte è finita, che vuoi fare: vieni di qua o resti di là?"

E' una voce senza labbra, né volto, riempie l'aria e la testa. E io, forse, mi trovo nell'anticamera tra questo mondo e l'altro mondo, tra il sogno e la veglia, tra il lusco e il brusco. Mi riconosco in una situazione impossibile, che sembra vera, di ubiquità.

"Allora, deciditi, cosa vuoi fare: di là o di qua?"

"Ma lo sai che io non comando niente?"

"Un poco comandi, con la volontà, che è una spinta."

"Ma tu chi sei?"

"Non senti? Sono la Voce, una specie di commesso o, per intenderci meglio, di messaggero."

Continuo a non capire dove sono esattamente, annaspo nell'incertezza.

"Ma se vengo di là cosa trovo?"

"E' una scommessa, ci vengono tutti e nessuno torna indietro."

"Chi lascia la strada vecchia per la nuova male si trova."

"Se fai una citazione, falla giusta, non cambiare le parole. Giacosa scrisse: chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia, ma non quel che trova."

Sono titubante mentre ho l'impressione che esista solo il presente, la simultaneità.

"Devo decidere in fretta?"

"No. Perché ti trovi nella zona del niente, dove il tempo non esiste."

"Oddio, mi impasto nel pantano della confusione, insomma: sogno o sono sveglio, sono vivo o morto? La stanza si muove, mi gira intorno. Tu dici: è una scommessa e io sul piatto della bilancia ci metto tutta la mia vita, ma nell'altro piatto cosa c'è?

"L'eternità, la verità, ti sembra niente?"

"Ne so quanto prima."

"Tu vuoi bussare alla porta del mistero, ma non la trovi perché ci sei dentro."



All'improvviso percepisco un pedinamento sulla schiena, è il gatto che mi attraversa. Fa i comodi suoi senza riguardo. Ho la testa intorpidita, pervasa da una nebbia densa, lenta a diradarsi. Tiro un'occhiata all'orologio, vedo solo la lancetta lunga, mancano dieci minuti a più tardi. Nel sereno mentale assorto, che piano piano si afferma, mi pare di vedere, distesa, l'ombra del mio dialogo col 'messaggero'. Ora non mi trovo più in quello spazio neutro dove non si capisce se si è vivi o morti, sono tornato di qua, immobile, con la mente che ripensa e pensa. Mi balza in testa che potremmo essere noi i marziani o, chiamiamoli pure, gli alieni, noi, che, una volta passati oltre, ci trasformiamo in quei soggetti sempre desiderosi di tornare a visitare la terra d'origine. Chi può negarlo? E' possibile. Ricordo di avere letto che questi extraterrestri, uomini o ominidi, sono stati avvistati. Qualcuno li ha descritti, io mi limito ad immaginarli. Hanno occhi grandi come le civette, sono piccoli, di colore verde prossimo ai ramarri. Non mangiano la pastasciutta, ma si alimentano di energia cosmica.

Che strano risveglio, diverso dagli altri. Adesso vedo ambedue le lancette, l'ora è piena, sono le sette e capisco che mi trovo dove il tempo esiste anche se non si sa cosa è. La sveglia mi chiama, strilla isterica, ma io me la prendo con calma. Mi ondeggia nella mente l'eco del messaggero. La sua eternità non mi fa paura, però non ho fretta perché sono ancora pieno della voglia di sole, di vita.

Guardo verso la finestra, che mi offre il sorriso di un altro giorno e mi appare anche la vela di un fiocco di nuvola sospinta dalla brezza della speranza.



Franco Ruinetti

venerdì 19 giugno 2020

L'opera di Olivastri nel Piccolomuseo di Fighille

 
Alcune immagini dal Piccolomuseo di Fighille con la collocazione dell'opera di Enzo Olivastri donata dalle figlie Valentina e Gioia Olivastri con cui stiamo sviluppando alcune idee e progettualità volte alla valorizzazione e alla conoscenza della sua lunga attività artistica svolta fra Italia e altri paesi europei.


martedì 16 giugno 2020

Evasione (by Franco Ruinetti)

 
EVASIONE 

Avevo litigato con la moglie e non era certo una novità. Questa, però, era stata solo una scaramuccia piuttosto che una battaglia.

"Ho deciso, me ne vado sul serio."

"Di testa sei già partito da un pezzo!"

"Starò via un paio di settimane, non mi cercare."

Sapeva che sarei andato nella casa colonica abbandonata dalla fine della mezzadria a mezza costa del monte, che ancora si regge, ma con qualche stampella. Avevo più volte deciso di passare un po' di ferie nel silenzio, nella solitudine, per ritrovarmi, come d'incanto, in un imprecisato passato lontano, in compagnia dei ricordi, dei miei pensieri. Altre due volte ero andato lassù col fermo proposito di rimanerci a lungo. Partivo di mattina. La sera ero già di ritorno. Però stavolta desideravo scomparire dalla civiltà per un bel periodo. Ero carico della voglia di evadere.

"Se hai bisogno di me sai dove trovarmi."

Ma lei continuò a fare le sue faccende senza degnarmi di una risposta.

Di seguito andai a fare la spesa: pane, gallette, salame, formaggio, vino, salsicce scatolette, uova, una candela. Da un cassetto del canterano presi una coperta di lana. Quindi fui a Belvedere, a metà della salita che porta al cielo. Era un mattino fresco di inizio estate. L'aia era un giardino rigoglioso di erbacce, tra le quali spuntavano qua e là i capi delle margherite. Mi parevano scolarette bionde con i baveri bianchi. L'aria azzurrina colmava la valle e portava la vista nelle lontananze fino a Monte Santa Maria Tiberina e addirittura alla piramide del Monte Acuto, tra Umbertide e Perugia. Pensavo di stare al centro della bellezza e che il mondo fosse fatto solo per me. Mi sentivo leggero, come se stessero per spuntarmi le ali.

Entrai in casa e vidi il focolare pieno di legna. Ce l'avevo messa l'ultima volta che c'ero andato, durante una breve domenicale vacanza, 'scappa e fuggi'. Accesi il fuoco anche se non ne avevo bisogno. Le fiamme divamparono crepitando perché alla base c'erano le ginestre festose.

Imbandii la tavola. Tolsi dal cassetto una piccola tovaglia di plastica, forchetta e coltello. Mangiai il pane col formaggio e bevvi, attaccandomi alla bocca del fiasco, il vino della Puglia generoso di 14 gradi, sangue versato dalle anime della terra e del sole. Ogni sorso un bacio dolce alla vita.

Mi sentivo bene, soddisfatto per la fuga dal mondo. Girai nelle stanze vuote. Risolsi che avrei passato la notte nella stalla dove c'era un gran mucchio di paglia.


Impugnai la falce fienaia, tosai l'aia infestata dalla gramigna e da alte erbe grasse. Dopodiché, stanco, affogai nella paglia ruvida e subito passai oltre, nel regno di Morfeo dove il silenzio parla e l'immobilità è attiva, laddove ricordo di avere visto muoversi, nell'ombra diffusa, lembi di nuvole come pesanti stracci neri. Erano le tracce dei muggiti spenti, rimaste sospese chissà da quanto.

Mi svegliai sudato.

Quando si spegneva il giorno, 'si dissanguava' e la luna, tutta tonda, spuntava sopra il crinale dei Tre Termini (dove confinano Toscana, Marche e Umbria), feci la mia prima cena da evaso dalla prigionia della civiltà con pane e salsicce sottolio, che apprezzai come una ruspante mangiata a 5 stelle. Purtroppo niente acqua, data la lontananza della sorgente ormai quasi dispersa, ridotta a lacrimare e anche perché non avevo il bicchiere, che è poca cosa, ma il progresso e l'abitudine l'hanno reso indispensabile. Io ero obbligato a spegnere la sete col vino, ma m'imposi una non facile moderazione, dato che, salvo qualche strappo alla regola, di norma ero astemio.

Nel capanno trovai una sdraio rattoppata e con qualche sdrucitura, ma ancora capace di sopportarmi. La portai fuori e mi misi sotto gli antichi gelsi in compagnia del fiasco.

Il cielo era già popolato di stelle, che apparivano vicine tra loro e ferme, quando invece sono distanti e veloci da non credere.

Respiravo l'aria nuova, buona per l'odore dell'erba falciata.

Ogni tanto festeggiavo levando in aria un immaginario lieto calice. Notai che le stelle trepidanti erano tutte diverse per grandezza e per le luci, alcune tendenti al bianco, altre al giallo, altre ancora al rosso. Erano fiori spontanei di un'immensa aiuola. Cosa era e perché esisteva quella notte così viva, scintillante e chi ero io? Non ci capivo niente. Allora cominciai a fare il filosofo, così, per esercizio, per me stesso, senza la cattedra. Mi apparvero due principi o cause prime o motori immobili, quello dell'Essere e quello del Non Essere, sarebbe a dire Dio e il Tempo. Che non sono visibili, ma esistono, si qualificano per gli effetti presenti, tangibili, cioè per la creazione l'Uno, per la distruzione l'Altro. Elucubrando alzavo la mano sinistra e, con la destra, il fiasco.

A questo punto fui percorso da un brivido di freddo. Feci il gesto della sventola, come per dissipare le idee che m'avevano ingombrato la mente. Mi spuntò un sorriso perché ricordai il professore "Pensierone" e perché ebbi l'impressione di avere scoperto l'acqua calda. Pensai poi che un'altra giornata era passata e nella mia catena era scomparso, annullato dal Tempo un altro anello, che il nulla o l'incognito era più vicino. Alzai il fiasco al cielo per un ulteriore brindisi. Quel recipiente dai fianchi opimi m'infuse una sensazione di amicizia.

Andai nella stalla e nell'ombra densa, a tentoni, improvvisai un giaciglio rusticano.

Non era un modo facile per riposare, così vestito, scarpe comprese e con quella coperta che scivolava di qua e di là. Nulla conciliava il sonno. Il buio era distratto dalle stelle che occhieggiavano nella cornice del finestrino, il silenzio era spezzettato dal crepitare della paglia che bastava girassi il capo per lamentarsi, poi, lassù lontano da tutti, non mi sentivo nel gorgo di quella solitudine cercata perché percepivo voci e versi di animali e insetti dentro e oltre la mia 'camera'.


Provavo disagio, di più, paura. Lottavo con la stanchezza, aspettavo il sonno. Allora dall'aldilà mi venne nella mente mia madre, che è sempre presente nei momenti duri. Lei, figlia della terra, aveva parole semplici, ma di grande saggezza.

"Male non fare, paura non avere."

"Studia, mi raccomando, perché sullo stipendio fisso non cade la grandine."

(A questa raccomandazione ho obbedito qualche anno più tardi, ma ancora in tempo.)

E così via. Ma il sonno tardava. Guardavo le stelle, sentivo sempre più rumori, anche quelli che non c'erano. Ma ad un tratto uno strillo suonò alto, si ripeté più volte. Era uno squittio che perforava i timpani. Pensai ad un topo o meglio ad una signora topa con le doglie. Le scagliai un urlo. Tacque. Poi più niente.

Mi svegliai al mattino col sole in faccia che entrava dal finestrino aperto. Le rondini erano saette che lanciavano grida. Mi stiracchiai e sentii le ossa indolenzite per avere conosciuto il letto di lastre.

Uscii all'aperto. Cercavo di pensare ad altro, di trastullare la mente col panorama. La vita da evaso cominciava già a pesarmi. Salii sul poggio che divide la stretta valle dell'Afra dalla valle del Tevere. Mangiai pane e formaggio seduto sul bordo di una fossa scavata al tempo della guerra per una postazione antiaerea. Quel pezzo di cacio pecorino mi piaceva, ma il risveglio e la colazione a casa erano ben altra cosa, come sorrisi al nuovo giorno. Certo, mi mancava mia moglie, mi mancava anche l'eventuale battibecco sempre foriero del sereno. Mi proposi di resistere, di protrarre la permanenza lontano dagli imbrogli della civiltà corrente, ma avvertivo che la volontà si stava sfibrando.

Poi un rumore sempre più prepotente profanò il silenzio. Vidi serpeggiare nella carrareccia, bardato come impongono la legge e la moda, con una specie di scafandro rosso e verde, un motociclista che ruppe la mia solitudine e mi riportò a galla nel presente. Passò veloce e scomparve nel bosco caro alle favole, agli gnomi, dove tanti anni fa la piccola Giuditta pascolava i maiali.

Tornai alla casa e mi stesi nella sdraio. Avevo davanti, sull'altro versante della stretta valle, il convento di Montecasale e mi misi a pensare al 'Poverello' che m'aveva sempre affascinato per la semplicità e la forza con le quali aveva raggiunto le vette più alte della santità e della poesia. Ricordai quella discussione al bar, quando un rispettato 'maestro' sentenziò che bastava un solo san Francesco al mondo, anzi era troppo. E io intervenni: "I santi sono sempre pochi, i cretini sempre tanti".

Poi, quando il sole era alto in mezzo al cielo e al giorno decisi di organizzare il pranzo, che era già pronto. Presi la confezione di quattro uova, le mangiai crude con un po' di pane e con le gallette di riso. Innaffiai abbondantemente il tutto col 'Salento' tosto, ma di velluto; mi distesi nel pagliericcio dal colore dell'oro e che non mitigava la durezza cruda del pavimento, prossima a quella dello scoglio scelto come letto dal santo.

Quindi mi parve di vedere un banco di nebbia leggera penetrata da un fascio di sole. Era il vino che fumigava. Ne avevo abusato, ero contento e finalmente all'improvviso sbalzato lontano dalla civiltà, evaso dal presente, senza pensieri.

Però l'euforia passò perché il cuore cominciò a battere al trotto e talvolta sembrava saltasse l'ostacolo. Controllai il polso, correva, era zoppo. Intanto avvertivo del gonfiore nello stomaco, come se le uova e le gallette del pranzo lievitassero. Allora raccolsi le mie cose con cautela, chiusi le porte e presi a camminare lentamente per tornare dalla moglie e al mondo. Ogni tanto facevo una sosta.

Prima di raggiungere il paese feci l'ultima fermata in prossimità del caseggiato denominato "La Romitina". Il muro della cancellata, all'inizio del viale, una volta sormontato da due leoni, per il suo movimento a semicerchio pareva accogliesse con un abbraccio chi arrivava. Sedetti su un tronco di quercia. Presi la testa tra le mani. Scrissi nella mente, a caratteri cubitali, che solo con la poesia si può rivivere nel passato e dal presente non si esce, che si va sempre solo avanti, come fa l'intero mondo, il quale non recede mai, né ripercorre le usate strade.

Quando arrivai a destinazione i fumi del vino erano scomparsi e non sentivo più né il cuore, né lo stomaco. I cinque chilometri a piedi erano stati taumaturgici.

E quando mia moglie, che impastava le polpette, mi vide sentenziò, senza alzare lo sguardo dalla spianatoia:

"Le tue settimane sono corte!"

"Sono tornato in anticipo perché ho litigato con le uova."

"Ho l'impressione che tu abbia bevuto."

"Sai bene che sono astemio."

Il battibecco durò un altro poco.

Poi venne il sereno.



Franco Ruinetti