martedì 31 marzo 2020

Realtà o impressione? (by Franco Ruinetti)

 


REALTA' O IMPRESSIONE?

Il sole transitava nella costellazione del leone e, nelle strade strette del paese, l'aria pesava bollente. Allora, in quel meriggio, decisi di tornare ragazzo, cavalcai la bicicletta e andai al Gorgo Buio dell'Afra, torrente tributario del Tevere, profondo, con la leggenda del vitello d'oro nascosto in una sua grotta dai Goti tanti secoli fa e chissà perché. Mi tuffai nelle acque fresche, quindi mi distesi sopra un grande scoglio per soffriggere al sole. Ero immerso nella solitudine, cullato dal lamento della cascatella, prigioniero del violino ripetitivo, disperato, straziante delle cicale.
Tutto d'un tratto mi sorprese e ruppe l'incanto silvestre un tonfo sordo seguito dallo sciacquio. Mi girai nel giaciglio rupestre e vidi una adolescente o poco più in mezzo allo specchio del gorgo, che si volse verso di me. La pelle bruna, bagnata, rifletteva i raggi del sole. Era di una bellezza fulgente, irresistibile. Tanto che, automaticamente, mi alzai in piedi leggero, come se il mio corpo non avesse più peso, quindi feci un volo, più che un tuffo, per cercare di raggiungerla. Lei nuotava agile, mi sorrideva invitante, scivolava veloce come se avesse le pinne; i lunghi capelli neri le danzavano sul dorso a fiore dell'acqua. E mentre la inseguivo, senza raggiungerla, in un gioco che desideravo non finisse, mi trascorrevano nella mente lampi di immagini e pensieri. Rifiutai subito, come inadeguata, la giostra del gatto col topo. Mi apparvero, in rapida successione, le ninfe delle fonti, dei fiumi, dei laghi e, di esse, sostò di più Dafne. Poi mi si presentò davanti quel monumento della fanciulla mitologica con Apollo scolpito da Gian Lorenzo Bernini su marmo bianco lucente, che avevo conosciuto soltanto sul libro di storia dell'arte. Intanto la nuotatrice scappava da me che faticavo e sudavo freddo. Sentivo il cuore in gola per correre appresso ad un desiderio impossibile. La vedevo come un fiore in boccio e, nello stesso tempo, vedevo me stesso come un uomo che ha disperso nel tempo la giovinezza, lo specchio, il senno.


Procedevo sguazzando senza volerla veramente intercettare per il sospetto di essere respinto, ché sarebbe la fine: meglio l'incertezza piuttosto della certezza di un rifiuto definitivo. Lei era luce, non potevo abbracciare lo splendore dell'aria. Era come una stella così fredda, che mi ricordava la donna cantata nella poesia provenzale o siciliana del Duecento. Ma che andavo a pensare? Spaziavo nel mondo onirico o ero desto? Mi toccavo, ero sveglio e lei era ancora là, però la sua presenza, piano piano, veniva avvolta in una matassa di nebbia. Che sensazione strana! Non ero più in acqua, mi ritrovavo ancora di nuovo disteso tutto lungo sopra lo scoglio crudo, battuto dal sole implacabile. Poi Apollo abbracciava Dafne e mi pareva di essere lui. Era sul punto di baciarla, ma la ninfa si trasformava nell'albero dell'alloro, con i tralci del quale si facevano i serti per cingere le teste dei poeti, degli eroi, il cui nome allude alla festa della laurea. Infine, dopo essere stato nell'altalena tra il sogno e la veglia, aprii gli occhi, mi chiesi: 'ci sono o non ci sono? Il mondo è realtà o solo un'impressione sfuggente?' Rimbalzai in me stesso e guardai verso la sponda scoscesa del torrente dove non vidi il sempreverde odoroso lauro della gloria, bensì c'erano prosaici giunchi e cannicci, cespugli di ginestre. E guardai il pioppo alto sul greppo che, trapassato dai dardi di sole, rideva di me. Ma come si permetteva?


Franco Ruinetti

venerdì 27 marzo 2020

Visti al museo (187) - D'Ambrosi, Paoli, Morganti, Cellanetti, Censini & D'Orazio

  

Segnaliamo che sei artisti presenti nella collezione del Piccolomuseo di Fighille entreranno a far parte del prestigioso Catalogo Sartori 2020 - Catalogo d'arte Moderna e Contemporanea edito dall'Archivio Sartori Editore di Mantova. Si tratta degli artisti: Fernanda Morganti, Diego D'Ambrosi, Giuliano Censini, Piero Paoli, Sandro Cellanetti, Daniela D'Orazio.


giovedì 26 marzo 2020

L'omaggio a Crocchioni dall'artista Marina Mian


Riceviamo e pubblichiamo l'omaggio che la pittrice Marina Mian ha dedicato  all'artista Pietro Crocchioni recentemente scomparso e fra i protagonisti del Piccolomuseo di Fighille.

martedì 24 marzo 2020

Lettera aperta al Coronovirus

LETTERA APERTA DI FIGHILLE AL CORONA VIRUS


Vigliacco.
Noi restiamo in casa per non incontrarti. 
Ti sbattiamo la porta in faccia.
Non ci incontri più nella strada e nei bar dove ci dai la caccia, 
tu che sei la morte, il nulla trasparente, che uccidi di nascosto.
Vigliacco.
Tiri il sasso e nascondi la mano.
Ci hai tolti baci ed abbracci, ma noi ci vogliamo bene lo stesso.
Tu vinci tante battaglie, semini disperazione. 
Ma l'alba della rinascita è prossima.
Vigliacco.
Fighille, briciola di paese, stazione dell'arte, apre ai fratelli di tutto il mondo l'abbraccio della speranza, bello come l'arcobaleno dopo la tempesta.


sabato 21 marzo 2020

Rassegna FA2019 (31)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......




venerdì 20 marzo 2020

Rassegna FA2019 (30)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......

 




giovedì 19 marzo 2020

Rassegna FA2019 (29)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......




mercoledì 18 marzo 2020

Rimbalzi della memoria (by Franco Ruinetti)

 

RIMBALZI DELLA MEMORIA



Il Monte in fiamme



Spettacolo bello e terribile. Era notte, la guerra si accaniva, dicevano che passava il fronte'. Io, ragazzetto, i miei genitori e diverse altre persone, sfollati in una casa nascosta nel bosco, tutti in piedi nell'aia, si assisteva al cannoneggiamento di Monte Santa Maria Tiberina che sorge, a forma di piramide, sul versante opposto della valle. Mi pareva di vedere un enorme pagliaio infuocato e ancora, dopo tanti decenni, ho davanti a me quelle lingue mobili ardenti che squarciano il blu della notte dilatandosi in un alone tra i sussulti delle esplosioni. Il cane guaiva, che mi pareva un pianto sommesso. Andai alla sua grotta scavata nel pagliaio dove era legato alla catena e mi sedetti accanto a lui che tremava e aveva il cuore impazzito. Il silenzio pesava come fosse di piombo e le persone presenti, che avevano disertato letti e giacigli, restavano immobili. Nessuno fiatava, ma ad un tratto, ricordo distintamente l'espressione di uno che chiamavano 'direttore': "Spettacolo bello e terribile: è un ossimoro."

Pensai che la parola da me sconosciuta, fosse un'imprecazione. Ma, molto tempo dopo, ripensandola capii che quella volta era stata pronunciata fuori luogo, forse per uno sfoggio di cultura.



A Gravina in Puglia



Nel '62, dopo aver superato un concorso, mi trasferii a Gravina in Puglia. La mia vicenda si svolse al contrario: mentre il flusso migratorio in cerca di lavoro aveva per destinazione il nord, io andai nel meridione. Quella città mi apparve giovane, cullata in uno sfarzo di luce, con i carri trainati dai ciucci, con strade e piazze vive per quei ragazzini liberi, sciolti, per l'azzurro gremito di rondini e falchetti. Abitavo in due stanzette all'ultimo piano. Di fronte alla finestra di camera s'ergeva impettito il campanile del duomo col suo grande orologio, occhio del tempo. Non avevo bisogno della sveglia. La porta-finestra dell'altra stanza si apriva sulla terrazza confinante con un'altra terrazza dove, spesso, soprattutto di notte, seduto su uno sgabello, fumava il sigaro o la pipa il pensionato Ruggiero (con o senza la i, inutile vexata quaestio), che sua moglie sfrattava dalla camera perché con quell'odore o puzzo non poteva dormire.

Io saltavo il muretto che divideva le terrazze e andavo a sedermi di fronte a lui.

"Una di queste notti, mi disse, andiamo a trovare un amico."

Dialogavo volentieri con Ruggiero che, pur essendo gravinese 'purosangue' con me parlava la lingua 'sciacquata in Arno'.

"Sarà amico tuo, io non lo conosco."

"Sarebbe amico di tutti ma nessuno lo va a trovare. Solamente io, ogni tanto, gli faccio un pò di compagnia".

Quella volta, erano già le dieci della sera, mi disse:

"Andiamo."

"Adesso! risposi, questa non è l'ora per fare visita ad una persona."

"Non ti preoccupare, per lui non c'è confine tra notte e giorno."

Ci ritrovammo nella strada, spingemmo a mano, fuori dal fondo, la vecchia Topolino, che gracchiò a lungo quando la mise in moto.

"Si potrebbe andare a fari spenti."

Infatti la luna stendeva la sua luce vivida sulle Murge deserte.

"Sembra d'essere soli al mondo!"

Percorsa una decina di chilometri lasciammo la strada asfaltata per imboccare una carrareccia sconnessa. Ci fermammo davanti ad una costruzione bassa, col tetto a capanna, nella quale abitava lo 'zio Delio', che era un uomo dall'età di mezzo e di media statura.

"Finalmente ti rivedo, chi hai portato?"

"E' un amico, abita da poco tempo vicino a me, viene da lontano."

Ci fece sedere attorno ad un tavolo, ci offrì more nere di gelso, olive, noci, poi cominciò a parlare di sé perché voleva dirmi chi era. Si alzò, prese da una mensola un fiasco di vino e dei bicchieri.

"Servitevi."

Alla fioca luce della lampada nuda, senza piatto di smalto o paralume, vidi che aveva un occhio rosso. La pupilla azzurra affogava nel fuoco.

"Sono un libro aperto, disse rivolgendosi a Ruggiero, così il tuo amico sarà libero di rimanere o di andarsene. Ma se rimarrà e tornerà mi farà piacere."

E quel libro raccontò la storia bella di un amore che è dono di Dio, triste perché quel sentimento era stato offeso, umiliato e perché la morte glielo aveva strappato, ma non cancellato. Parlava e gli scivolavano lacrime mute dall'occhio sereno e da quello infiammato. Ricordò l'imperatore Adriano e Antinoo, un pomodoro che una mano anonima gli scagliò in faccia, le derisioni, gli scherni. Parlò, parlò sempre a testa bassa e quando lo salutammo, a notte fonda, io ero diverso perché capii che l'amore non ha confini, è assoluto, non sezionabile in categorie. Pensai che condannare un omosessuale è come ostracizzare qualcuno per il solo fatto che parla un'altra lingua.

Quando stavo per salire in macchina, colpito da improvviso affetto, tornai indietro, abbracciai e baciai lo zio Delio promettendogli che sarei tornato a trovarlo.

Ma non l'ho più rivisto perché lasciai la Murgia luminosa per approdare al settentrione in un paese sul lago di Garda.





All'epoca di Lascia o raddoppia?



Nell'arco di poco tempo l'avvento della TV aveva fatto cambiare le abitudini delle genti. In special modo, il giovedì sera, le strade e le piazze del paese, anche nella bella stagione, erano deserte a tutto vantaggio dei bar e di qualche circolo per tesserati che avevano istallato questo apparecchio. Il giorno in mezzo alla settimana era diventato più importante e atteso delle feste e Mike Bongiorno aveva l'aureola del semidio venuto dall'America. Io, che allora avevo appena cominciato a radermi la peluria sulle gote, soffrendo un poco di claustrofobia, entravo di rado nella sala affollata. Una sera, mentre ero seduto fuori dal locale e fumavo la sigaretta del dopocena, arrivò col suo lento dondolio Pietro Sordo e si accomodò vicino a me.

"Che fai, non entri?"

"E'? Che hai detto?"

Gli avevo parlato senza guardarlo, così che non poteva leggere le parole sulle labbra. Gli ripetei la domanda.

"C'è troppa gente, rispose. Poi non sento e non mi diverto."

E capitò 'Zucco', più o meno mio coetaneo, che, di recente, aveva ereditato villa, case, fattoria. Correva voce che non fosse un'aquila, che era avaro, ma anche scialacquatore. Alcuni dicevano che suo padre era morto di crepacuore per il figlio sconsiderato, altri sapevano che era schiattato durante l'ultima battaglia d'amore con una bionda di facili costumi, strepitosamente bella.

"Guarda chi si rivede! Dove sei stato per tanto tempo?

"A caccia, sono qui e pago da bere."

Aveva la statura di un orso e la voce di un pulcino.

"Sbaglia chi non crede nei miracoli!"

"Hai ammazzato un elefante?"

"Tu non entri, gli domandai, a vedere Lascia o raddoppia?"

"No, rispose, perché le interrogazioni non mi piacciono, smisi apposta di andare a scuola."

Pietro Sordo ordinò tre bicchieri di albana e i biscotti cantucci

"Morti di fame, pigolò Zucco, volete anche la pastasciutta?"

"Bravo Pietro, dissi, così si fa la zuppa, non capita spesso."

L'ereditiero cominciò a parlare. Non si poteva interromperlo, come il prete alla predica. Ricordo alcune teorie: i professi, cioè preti, frati, monache, vivono contro natura perché la castità imposta non è virtù, ma castigo, ergastolo sessuale, martirio. Poi, senza soluzione di continuità rivelò che aveva inventato delle molle da inserire nei tacchi delle scarpe per camminare e correre agili. Sostenne, inoltre che andava cambiato l'ordine negli indirizzi sulle buste: prima la città, poi la via, infine cognome e nome.

Il vino e i biscotti finirono presto, il monologo no, continuò indefesso fino a quando una fiumana di gente uscì fragorosa dal locale e anche noi, con i saluti, chiudemmo all'ultima ora le porte di quella giornata.



La Liana



In fondo al viale, un poco ostacolata dalla siepe di bosso, la intravvidi, alta, come un'apparizione nella lontananza del ricordo. Avanzava lenta. La guardavo attento dalla mia postazione di avvistamento, che era la sedia fuori dal bar. Man mano che procedeva, pur essendo ancora lontana, la sua figura acquistava certezza. Mi sembrava proprio lei, la Liana, che era scomparsa da vent'anni, forse di più. Quando eravamo adolescenti ci avevo trascorso qualche pomeriggio assieme, nel salotto di casa sua per studiare Croce, Gentile fino al Superuomo di Nietzsche. Come era bella! M'aveva scaldato il cuore e il candore lunare del suo volto, incorniciato dall'alone biondo della chioma, mi era albeggiato con una certa insistenza nella mente. Ma non altro. Perché, secondo me, apparteneva ad un pianeta diverso dal mio.

Era lei, era lei, la Liana. Allora mi alzai e le andai incontro. Il biondo dei capelli, evidentemente, non era più il suo, però mi appariva ancora, come un'aureola d'oro.

Accennò un sorriso, mentre continuava a camminare sospingendo il deambulatore. Ci scambiammo due baci a fior di guance, quindi ci allontanammo, io da una parte, lei dall'altra. In un silenzio che diceva tutto.


Franco Ruinetti

sabato 14 marzo 2020

Rassegna FA2019 (28)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......





venerdì 13 marzo 2020

Rassegna FA2019 (27)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......




giovedì 12 marzo 2020

Rassegna FA2019 (26)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......




mercoledì 11 marzo 2020

Rassegna FA2019 (25)

Rassegna delle opere presentate al Premio FighilleArte2019 - sezione opere da studio......



martedì 10 marzo 2020

Nuovi amici (by Franco Ruinetti)

 





Avevo tanti amici al paese, erano la mia ricchezza. Il trascorrere lento dei decenni, che si sono ammucchiati, li ha decimati e ora, nelle strade e in piazza, incontro solo volti anonimi, senza festa. Alcuni di quelli veri, cioè compagni di classe delle elementari, sono sparsi nel mondo, i più sono sparsi nei cimiteri, altri li ho persi nella memoria. Un paio ne vedo ancora, raramente, sopravvissuti (uno in malo modo) alle intemperie del tempo e della salute. Ma l'amicizia è il sale della vita e io l'ho rinnovata frequentando, alcune volte, l'Isola Serena, il pensionato alto sulla collina, che non mi piace definire ricovero per vecchi. La maggior parte di questi collegiali, maschi e femmine, mi supera per età, ma ce ne sono anche giovani. Quando vado lassù mi intrattengo ora con questo ora con quella, con chi mi chiama o si avvicina per primo. Avverto con piacere d'essere atteso, accettato. L'amicizia, che fa bene sia a me che a loro, non è volontariato.




Raffaello



"Mi chiamano Lello per risparmiare il fiato."

Dicono di no, invece a me sembra persona intelligente, almeno ogni tanto. Passiamo il tempo parlando, in genere del passato. Le sue parole rotolano come ruote di un carro nell'acciottolato. A volte, d'improvviso, il discorso frena, si impantana in un vuoto di silenzio, si risveglia, riparte. E' interessante, almeno non è mai banale.

"Sono ospite dell'Isola da un paio di anni perché avevo spolverato mia moglie, macelleria dell'anima, col battipanni, ma roba leggera, senza farle danno... invece si scatenò l'inferno..."

"Tua moglie è viva, hai dei figli?"

"Ho due femmine e un maschio, lavorano, non hanno tempo per venire a trovarmi. Mia moglie viene, è sempre molto bella e sempre puttana... molto..."

"Non dire cattiverie."

Raffaello era un falegname, che, da giovane, emigrò in Svizzera dove si specializzò tanto da dare suggerimenti agli architetti. Il suo ultimo lavoro è stato un grande portone di cipresso schietto, m.1,60 di base e 3 di altezza per una chiesa a mezzo monte. Un portone, sormontato dal timpano, che, a suo dire, è bello, bugnato, un monumento, ancora nuovo, su una facciata di pietra serena.

"E' stata una spesa inutile perché il tetto dell'edificio è crollato e in quella frazione non abita più neanche un vecchio."

Mi stringe un braccio:

"Tutto finisce, solo l'amore per la vita non finisce, anzi è sempre più forte."




La signora Iolanda


L'ho sempre vista in quella poltrona, vestita distintamente, con una grossa spilla d'oro sul bavero, mai in piedi, forse ha problemi alle gambe. Mi siedo vicino, le bacio la mano.

"Signora Iolanda, come sta?"

"Sto bene, caro amico, la vedo con gioia."

Ha una vaporosa chioma di capelli, nuvola bianca fresca di parrucchiera. Provo suggestione per quelle pupille che lanciano lampi come i vetri delle finestre quando batte il sole del tramonto. Non so quanti anni ha, alle signore non si chiedono. Penso ne abbia tanti, ma la pelle del volto non ha ombre di rughe e le labbra svelte spiccano evidenziate dal rossetto.

"Ho fatto la madre e la casalinga. Quattro figli mi hanno molto impegnata e il poco di tempo libero l'ho dedicato a dipingere rose, tulipani, gardenie, fiori e fiori. Se avessi posseduto un'aiuola, anche piccola, li avrei voluti vivi, non li avrei soltanto sognati con l'acquarello.

Una volta la trovai cupa, con gli occhi spenti.

"Non sta bene signora?"

"Sono triste, soltanto triste."

C'erano diverse persone nella grande sala, alcune intorno al tavolo, altre nelle poltrone. Io e la Iolanda, seduti come al solito, l'uno a lato dell'altra, eravamo appartati in un angolo. Mi raccontò, a voce bassa, la sua storia.

"Avevo un marito stupendo. Fu il primo ed è stato l'ultimo amore. Eravamo una bella famiglia, contenti del nostro appartamento..."

"Signora, se parlare di questo la fa soffrire, parliamo d'altro..."

"Non si preoccupi... Dopo 30 anni di matrimonio e i nostri figli tutti sistemati, lui, tutto ad un tratto, non è più lui..."

"Cade in malattia?"

"Sarebbe stato meglio... No. Perde il senno per una ragazza polacca, si indebita anche, non è più lui..."

Intervenni, ero a disagio:

"Ad una certa età può accadere di rincorrere un'illusione."

La mia interferenza non la distrasse.

"Si confidava con me, mi chiedeva perdono e aiuto, ma io compresi tutto..."

"Cosa?"

"Quella polacca era la maschera del maligno e mio marito era posseduto. Soffriva poveretto, era innocente."

Non sapevo che dire, guardavo la spilla.

"Allora immersi nell'acqua santa una medaglietta di stagno del Cristo risorto, gliela cucii nel risvolto dei pantaloni, poi pregai intensamente perché il Salvatore cacciasse il demonio. E così avvenne: mio marito tornò da me, ma per pochi giorni perché il cattivo, lasciandolo, gli aveva lacerato il cuore."

A questo punto seguì una pausa di silenzio e io ne approfittai per alzarmi dalla sedia e baciarle la mano.

"Torni presto, l'aspetto."



La Iride e la briscola incompiuta


Con la Iride scherzo, ma non sempre perché qualche volta deraglia col pensiero. Può cambiare umore all'improvviso. Quando è schietta, serena, se mi vede mi chiama con voce alta come quando era dietro al banco nel mercato, anche se sono lì vicino:

"Franco, fai finta di non vedermi?"

Una volta mi sorprese:

"Sono passati gli anni, ma l'amore non si scorda..."

"E' vero!"

"Parlo di noi, di me e di te, Franco..."

Evidentemente era un altro Franco.

Non sapevo come comportarmi, cosa dire. E lei continuò a voce bassa, come chiusa in se stessa, rassegnata.

"Da allora, che mio marito ci sorprese mano nella mano e ci pagò il caffè, io lo persi, siamo stati separati in casa, mai più una parola e perdetti anche te..."

A questo punto arrivò l'infermiera con le medicine in una mano e nell'altra mezzo bicchiere d'acqua.

Che pena! Approfittai per cambiare rotta. Andai fuori nel giardino, e, dopo un poco, mi sedetti all'ombra del tiglio per giocare a briscola con tre ospiti amici di vecchia conoscenza. Tonio, il mio compagno di partita parlava, parlava mentre giocava con poca convinzione.

"Stai più attento, così si perde."

"Raccontagli, interloquì Giorgio, di quando facevi la medicina."

Tonio mise nella tasca della giacca le carte che aveva in mano per modellare le parole con i gesti.

"Facevo le pillole per le emorroidi con le castagne dinde, (dell'ippocastano) non era semplice, avevo imparato da mio nonno..."

Si dilungava nella spiegazione, diceva che non poteva dire il segreto del collante, eccipiente e così via.

"Ma questa cura era efficace?"

"Efficacissima, ne vendevo tante confezioni, le pillole erano miracolose. Le comprò anche la farmacista. "

Gli chiesi:

"Guarì?"

"No, disse Giorgio, rimase incinta."


Franco Ruinetti