martedì 16 giugno 2020

Evasione (by Franco Ruinetti)

 
EVASIONE 

Avevo litigato con la moglie e non era certo una novità. Questa, però, era stata solo una scaramuccia piuttosto che una battaglia.

"Ho deciso, me ne vado sul serio."

"Di testa sei già partito da un pezzo!"

"Starò via un paio di settimane, non mi cercare."

Sapeva che sarei andato nella casa colonica abbandonata dalla fine della mezzadria a mezza costa del monte, che ancora si regge, ma con qualche stampella. Avevo più volte deciso di passare un po' di ferie nel silenzio, nella solitudine, per ritrovarmi, come d'incanto, in un imprecisato passato lontano, in compagnia dei ricordi, dei miei pensieri. Altre due volte ero andato lassù col fermo proposito di rimanerci a lungo. Partivo di mattina. La sera ero già di ritorno. Però stavolta desideravo scomparire dalla civiltà per un bel periodo. Ero carico della voglia di evadere.

"Se hai bisogno di me sai dove trovarmi."

Ma lei continuò a fare le sue faccende senza degnarmi di una risposta.

Di seguito andai a fare la spesa: pane, gallette, salame, formaggio, vino, salsicce scatolette, uova, una candela. Da un cassetto del canterano presi una coperta di lana. Quindi fui a Belvedere, a metà della salita che porta al cielo. Era un mattino fresco di inizio estate. L'aia era un giardino rigoglioso di erbacce, tra le quali spuntavano qua e là i capi delle margherite. Mi parevano scolarette bionde con i baveri bianchi. L'aria azzurrina colmava la valle e portava la vista nelle lontananze fino a Monte Santa Maria Tiberina e addirittura alla piramide del Monte Acuto, tra Umbertide e Perugia. Pensavo di stare al centro della bellezza e che il mondo fosse fatto solo per me. Mi sentivo leggero, come se stessero per spuntarmi le ali.

Entrai in casa e vidi il focolare pieno di legna. Ce l'avevo messa l'ultima volta che c'ero andato, durante una breve domenicale vacanza, 'scappa e fuggi'. Accesi il fuoco anche se non ne avevo bisogno. Le fiamme divamparono crepitando perché alla base c'erano le ginestre festose.

Imbandii la tavola. Tolsi dal cassetto una piccola tovaglia di plastica, forchetta e coltello. Mangiai il pane col formaggio e bevvi, attaccandomi alla bocca del fiasco, il vino della Puglia generoso di 14 gradi, sangue versato dalle anime della terra e del sole. Ogni sorso un bacio dolce alla vita.

Mi sentivo bene, soddisfatto per la fuga dal mondo. Girai nelle stanze vuote. Risolsi che avrei passato la notte nella stalla dove c'era un gran mucchio di paglia.


Impugnai la falce fienaia, tosai l'aia infestata dalla gramigna e da alte erbe grasse. Dopodiché, stanco, affogai nella paglia ruvida e subito passai oltre, nel regno di Morfeo dove il silenzio parla e l'immobilità è attiva, laddove ricordo di avere visto muoversi, nell'ombra diffusa, lembi di nuvole come pesanti stracci neri. Erano le tracce dei muggiti spenti, rimaste sospese chissà da quanto.

Mi svegliai sudato.

Quando si spegneva il giorno, 'si dissanguava' e la luna, tutta tonda, spuntava sopra il crinale dei Tre Termini (dove confinano Toscana, Marche e Umbria), feci la mia prima cena da evaso dalla prigionia della civiltà con pane e salsicce sottolio, che apprezzai come una ruspante mangiata a 5 stelle. Purtroppo niente acqua, data la lontananza della sorgente ormai quasi dispersa, ridotta a lacrimare e anche perché non avevo il bicchiere, che è poca cosa, ma il progresso e l'abitudine l'hanno reso indispensabile. Io ero obbligato a spegnere la sete col vino, ma m'imposi una non facile moderazione, dato che, salvo qualche strappo alla regola, di norma ero astemio.

Nel capanno trovai una sdraio rattoppata e con qualche sdrucitura, ma ancora capace di sopportarmi. La portai fuori e mi misi sotto gli antichi gelsi in compagnia del fiasco.

Il cielo era già popolato di stelle, che apparivano vicine tra loro e ferme, quando invece sono distanti e veloci da non credere.

Respiravo l'aria nuova, buona per l'odore dell'erba falciata.

Ogni tanto festeggiavo levando in aria un immaginario lieto calice. Notai che le stelle trepidanti erano tutte diverse per grandezza e per le luci, alcune tendenti al bianco, altre al giallo, altre ancora al rosso. Erano fiori spontanei di un'immensa aiuola. Cosa era e perché esisteva quella notte così viva, scintillante e chi ero io? Non ci capivo niente. Allora cominciai a fare il filosofo, così, per esercizio, per me stesso, senza la cattedra. Mi apparvero due principi o cause prime o motori immobili, quello dell'Essere e quello del Non Essere, sarebbe a dire Dio e il Tempo. Che non sono visibili, ma esistono, si qualificano per gli effetti presenti, tangibili, cioè per la creazione l'Uno, per la distruzione l'Altro. Elucubrando alzavo la mano sinistra e, con la destra, il fiasco.

A questo punto fui percorso da un brivido di freddo. Feci il gesto della sventola, come per dissipare le idee che m'avevano ingombrato la mente. Mi spuntò un sorriso perché ricordai il professore "Pensierone" e perché ebbi l'impressione di avere scoperto l'acqua calda. Pensai poi che un'altra giornata era passata e nella mia catena era scomparso, annullato dal Tempo un altro anello, che il nulla o l'incognito era più vicino. Alzai il fiasco al cielo per un ulteriore brindisi. Quel recipiente dai fianchi opimi m'infuse una sensazione di amicizia.

Andai nella stalla e nell'ombra densa, a tentoni, improvvisai un giaciglio rusticano.

Non era un modo facile per riposare, così vestito, scarpe comprese e con quella coperta che scivolava di qua e di là. Nulla conciliava il sonno. Il buio era distratto dalle stelle che occhieggiavano nella cornice del finestrino, il silenzio era spezzettato dal crepitare della paglia che bastava girassi il capo per lamentarsi, poi, lassù lontano da tutti, non mi sentivo nel gorgo di quella solitudine cercata perché percepivo voci e versi di animali e insetti dentro e oltre la mia 'camera'.


Provavo disagio, di più, paura. Lottavo con la stanchezza, aspettavo il sonno. Allora dall'aldilà mi venne nella mente mia madre, che è sempre presente nei momenti duri. Lei, figlia della terra, aveva parole semplici, ma di grande saggezza.

"Male non fare, paura non avere."

"Studia, mi raccomando, perché sullo stipendio fisso non cade la grandine."

(A questa raccomandazione ho obbedito qualche anno più tardi, ma ancora in tempo.)

E così via. Ma il sonno tardava. Guardavo le stelle, sentivo sempre più rumori, anche quelli che non c'erano. Ma ad un tratto uno strillo suonò alto, si ripeté più volte. Era uno squittio che perforava i timpani. Pensai ad un topo o meglio ad una signora topa con le doglie. Le scagliai un urlo. Tacque. Poi più niente.

Mi svegliai al mattino col sole in faccia che entrava dal finestrino aperto. Le rondini erano saette che lanciavano grida. Mi stiracchiai e sentii le ossa indolenzite per avere conosciuto il letto di lastre.

Uscii all'aperto. Cercavo di pensare ad altro, di trastullare la mente col panorama. La vita da evaso cominciava già a pesarmi. Salii sul poggio che divide la stretta valle dell'Afra dalla valle del Tevere. Mangiai pane e formaggio seduto sul bordo di una fossa scavata al tempo della guerra per una postazione antiaerea. Quel pezzo di cacio pecorino mi piaceva, ma il risveglio e la colazione a casa erano ben altra cosa, come sorrisi al nuovo giorno. Certo, mi mancava mia moglie, mi mancava anche l'eventuale battibecco sempre foriero del sereno. Mi proposi di resistere, di protrarre la permanenza lontano dagli imbrogli della civiltà corrente, ma avvertivo che la volontà si stava sfibrando.

Poi un rumore sempre più prepotente profanò il silenzio. Vidi serpeggiare nella carrareccia, bardato come impongono la legge e la moda, con una specie di scafandro rosso e verde, un motociclista che ruppe la mia solitudine e mi riportò a galla nel presente. Passò veloce e scomparve nel bosco caro alle favole, agli gnomi, dove tanti anni fa la piccola Giuditta pascolava i maiali.

Tornai alla casa e mi stesi nella sdraio. Avevo davanti, sull'altro versante della stretta valle, il convento di Montecasale e mi misi a pensare al 'Poverello' che m'aveva sempre affascinato per la semplicità e la forza con le quali aveva raggiunto le vette più alte della santità e della poesia. Ricordai quella discussione al bar, quando un rispettato 'maestro' sentenziò che bastava un solo san Francesco al mondo, anzi era troppo. E io intervenni: "I santi sono sempre pochi, i cretini sempre tanti".

Poi, quando il sole era alto in mezzo al cielo e al giorno decisi di organizzare il pranzo, che era già pronto. Presi la confezione di quattro uova, le mangiai crude con un po' di pane e con le gallette di riso. Innaffiai abbondantemente il tutto col 'Salento' tosto, ma di velluto; mi distesi nel pagliericcio dal colore dell'oro e che non mitigava la durezza cruda del pavimento, prossima a quella dello scoglio scelto come letto dal santo.

Quindi mi parve di vedere un banco di nebbia leggera penetrata da un fascio di sole. Era il vino che fumigava. Ne avevo abusato, ero contento e finalmente all'improvviso sbalzato lontano dalla civiltà, evaso dal presente, senza pensieri.

Però l'euforia passò perché il cuore cominciò a battere al trotto e talvolta sembrava saltasse l'ostacolo. Controllai il polso, correva, era zoppo. Intanto avvertivo del gonfiore nello stomaco, come se le uova e le gallette del pranzo lievitassero. Allora raccolsi le mie cose con cautela, chiusi le porte e presi a camminare lentamente per tornare dalla moglie e al mondo. Ogni tanto facevo una sosta.

Prima di raggiungere il paese feci l'ultima fermata in prossimità del caseggiato denominato "La Romitina". Il muro della cancellata, all'inizio del viale, una volta sormontato da due leoni, per il suo movimento a semicerchio pareva accogliesse con un abbraccio chi arrivava. Sedetti su un tronco di quercia. Presi la testa tra le mani. Scrissi nella mente, a caratteri cubitali, che solo con la poesia si può rivivere nel passato e dal presente non si esce, che si va sempre solo avanti, come fa l'intero mondo, il quale non recede mai, né ripercorre le usate strade.

Quando arrivai a destinazione i fumi del vino erano scomparsi e non sentivo più né il cuore, né lo stomaco. I cinque chilometri a piedi erano stati taumaturgici.

E quando mia moglie, che impastava le polpette, mi vide sentenziò, senza alzare lo sguardo dalla spianatoia:

"Le tue settimane sono corte!"

"Sono tornato in anticipo perché ho litigato con le uova."

"Ho l'impressione che tu abbia bevuto."

"Sai bene che sono astemio."

Il battibecco durò un altro poco.

Poi venne il sereno.



Franco Ruinetti