EVASIONE
Avevo litigato con la moglie e non
era certo una novità. Questa, però, era stata solo una scaramuccia piuttosto
che una battaglia.
"Ho deciso, me ne vado sul
serio."
"Di testa sei già partito da un
pezzo!"
"Starò via un paio di settimane,
non mi cercare."
Sapeva che sarei andato nella casa
colonica abbandonata dalla fine della mezzadria a mezza costa del monte, che
ancora si regge, ma con qualche stampella. Avevo più volte deciso di passare un
po' di ferie nel silenzio, nella solitudine, per ritrovarmi, come d'incanto, in
un imprecisato passato lontano, in compagnia dei ricordi, dei miei pensieri.
Altre due volte ero andato lassù col fermo proposito di rimanerci a lungo.
Partivo di mattina. La sera ero già di ritorno. Però stavolta desideravo
scomparire dalla civiltà per un bel periodo. Ero carico della voglia di
evadere.
"Se hai bisogno di me sai dove
trovarmi."
Ma lei continuò a fare le sue
faccende senza degnarmi di una risposta.
Di seguito andai a fare la spesa:
pane, gallette, salame, formaggio, vino, salsicce scatolette, uova, una
candela. Da un cassetto del canterano presi una coperta di lana. Quindi fui a
Belvedere, a metà della salita che porta al cielo. Era un mattino fresco di
inizio estate. L'aia era un giardino rigoglioso di erbacce, tra le quali
spuntavano qua e là i capi delle margherite. Mi parevano scolarette bionde con
i baveri bianchi. L'aria azzurrina colmava la valle e portava la vista nelle
lontananze fino a Monte Santa Maria Tiberina e addirittura alla piramide del
Monte Acuto, tra Umbertide e Perugia. Pensavo di stare al centro della bellezza
e che il mondo fosse fatto solo per me. Mi sentivo leggero, come se stessero
per spuntarmi le ali.
Entrai in casa e vidi il focolare
pieno di legna. Ce l'avevo messa l'ultima volta che c'ero andato, durante una
breve domenicale vacanza, 'scappa e fuggi'. Accesi il fuoco anche se non ne
avevo bisogno. Le fiamme divamparono crepitando perché alla base c'erano le
ginestre festose.
Imbandii la tavola. Tolsi dal
cassetto una piccola tovaglia di plastica, forchetta e coltello. Mangiai il
pane col formaggio e bevvi, attaccandomi alla bocca del fiasco, il vino della
Puglia generoso di 14 gradi, sangue versato dalle anime della terra e del sole.
Ogni sorso un bacio dolce alla vita.
Mi sentivo bene, soddisfatto per la
fuga dal mondo. Girai nelle stanze vuote. Risolsi che avrei passato la notte
nella stalla dove c'era un gran mucchio di paglia.
Impugnai la falce fienaia, tosai
l'aia infestata dalla gramigna e da alte erbe grasse. Dopodiché, stanco,
affogai nella paglia ruvida e subito passai oltre, nel regno di Morfeo dove il
silenzio parla e l'immobilità è attiva, laddove ricordo di avere visto
muoversi, nell'ombra diffusa, lembi di nuvole come pesanti stracci neri. Erano
le tracce dei muggiti spenti, rimaste sospese chissà da quanto.
Mi svegliai sudato.
Quando si spegneva il giorno, 'si
dissanguava' e la luna, tutta tonda, spuntava sopra il crinale dei Tre Termini
(dove confinano Toscana, Marche e Umbria), feci la mia prima cena da evaso
dalla prigionia della civiltà con pane e salsicce sottolio, che apprezzai come
una ruspante mangiata a 5 stelle. Purtroppo niente acqua, data la lontananza
della sorgente ormai quasi dispersa, ridotta a lacrimare e anche perché non
avevo il bicchiere, che è poca cosa, ma il progresso e l'abitudine l'hanno reso
indispensabile. Io ero obbligato a spegnere la sete col vino, ma m'imposi una
non facile moderazione, dato che, salvo qualche strappo alla regola, di norma
ero astemio.
Nel capanno trovai una sdraio
rattoppata e con qualche sdrucitura, ma ancora capace di sopportarmi. La portai
fuori e mi misi sotto gli antichi gelsi in compagnia del fiasco.
Il cielo era già popolato di stelle,
che apparivano vicine tra loro e ferme, quando invece sono distanti e veloci da
non credere.
Respiravo l'aria nuova, buona per
l'odore dell'erba falciata.
Ogni tanto festeggiavo levando in
aria un immaginario lieto calice. Notai che le stelle trepidanti erano tutte
diverse per grandezza e per le luci, alcune tendenti al bianco, altre al
giallo, altre ancora al rosso. Erano fiori spontanei di un'immensa aiuola. Cosa
era e perché esisteva quella notte così viva, scintillante e chi ero io? Non ci
capivo niente. Allora cominciai a fare il filosofo, così, per esercizio, per me
stesso, senza la cattedra. Mi apparvero due principi o cause prime o motori
immobili, quello dell'Essere e quello del Non Essere, sarebbe a dire Dio e il
Tempo. Che non sono visibili, ma esistono, si qualificano per gli effetti
presenti, tangibili, cioè per la creazione l'Uno, per la distruzione l'Altro.
Elucubrando alzavo la mano sinistra e, con la destra, il fiasco.
A questo punto fui percorso da un
brivido di freddo. Feci il gesto della sventola, come per dissipare le idee che
m'avevano ingombrato la mente. Mi spuntò un sorriso perché ricordai il
professore "Pensierone" e perché ebbi l'impressione di avere scoperto
l'acqua calda. Pensai poi che un'altra giornata era passata e nella mia catena
era scomparso, annullato dal Tempo un altro anello, che il nulla o l'incognito
era più vicino. Alzai il fiasco al cielo per un ulteriore brindisi. Quel
recipiente dai fianchi opimi m'infuse una sensazione di amicizia.
Andai nella stalla e nell'ombra
densa, a tentoni, improvvisai un giaciglio rusticano.
Non era un modo facile per riposare,
così vestito, scarpe comprese e con quella coperta che scivolava di qua e di
là. Nulla conciliava il sonno. Il buio era distratto dalle stelle che
occhieggiavano nella cornice del finestrino, il silenzio era spezzettato dal
crepitare della paglia che bastava girassi il capo per lamentarsi, poi, lassù
lontano da tutti, non mi sentivo nel gorgo di quella solitudine cercata perché
percepivo voci e versi di animali e insetti dentro e oltre la mia 'camera'.
Provavo disagio, di più, paura.
Lottavo con la stanchezza, aspettavo il sonno. Allora dall'aldilà mi venne
nella mente mia madre, che è sempre presente nei momenti duri. Lei, figlia
della terra, aveva parole semplici, ma di grande saggezza.
"Male non fare, paura non
avere."
"Studia, mi raccomando, perché
sullo stipendio fisso non cade la grandine."
(A questa raccomandazione ho
obbedito qualche anno più tardi, ma ancora in tempo.)
E così via. Ma il sonno tardava.
Guardavo le stelle, sentivo sempre più rumori, anche quelli che non c'erano. Ma
ad un tratto uno strillo suonò alto, si ripeté più volte. Era uno squittio che
perforava i timpani. Pensai ad un topo o meglio ad una signora topa con le
doglie. Le scagliai un urlo. Tacque. Poi più niente.
Mi svegliai al mattino col sole in
faccia che entrava dal finestrino aperto. Le rondini erano saette che
lanciavano grida. Mi stiracchiai e sentii le ossa indolenzite per avere
conosciuto il letto di lastre.
Uscii all'aperto. Cercavo di pensare
ad altro, di trastullare la mente col panorama. La vita da evaso cominciava già
a pesarmi. Salii sul poggio che divide la stretta valle dell'Afra dalla valle
del Tevere. Mangiai pane e formaggio seduto sul bordo di una fossa scavata al
tempo della guerra per una postazione antiaerea. Quel pezzo di cacio pecorino
mi piaceva, ma il risveglio e la colazione a casa erano ben altra cosa, come
sorrisi al nuovo giorno. Certo, mi mancava mia moglie, mi mancava anche
l'eventuale battibecco sempre foriero del sereno. Mi proposi di resistere, di
protrarre la permanenza lontano dagli imbrogli della civiltà corrente, ma
avvertivo che la volontà si stava sfibrando.
Poi un rumore sempre più prepotente
profanò il silenzio. Vidi serpeggiare nella carrareccia, bardato come impongono
la legge e la moda, con una specie di scafandro rosso e verde, un motociclista
che ruppe la mia solitudine e mi riportò a galla nel presente. Passò veloce e
scomparve nel bosco caro alle favole, agli gnomi, dove tanti anni fa la piccola
Giuditta pascolava i maiali.
Tornai alla casa e mi stesi nella
sdraio. Avevo davanti, sull'altro versante della stretta valle, il convento di
Montecasale e mi misi a pensare al 'Poverello' che m'aveva sempre affascinato
per la semplicità e la forza con le quali aveva raggiunto le vette più alte
della santità e della poesia. Ricordai quella discussione al bar, quando un
rispettato 'maestro' sentenziò che bastava un solo san Francesco al mondo, anzi
era troppo. E io intervenni: "I santi sono sempre pochi, i cretini sempre
tanti".
Poi, quando il sole era alto in
mezzo al cielo e al giorno decisi di organizzare il pranzo, che era già pronto.
Presi la confezione di quattro uova, le mangiai crude con un po' di pane e con
le gallette di riso. Innaffiai abbondantemente il tutto col 'Salento' tosto, ma
di velluto; mi distesi nel pagliericcio dal colore dell'oro e che non mitigava
la durezza cruda del pavimento, prossima a quella dello scoglio scelto come
letto dal santo.
Quindi mi parve di vedere un banco
di nebbia leggera penetrata da un fascio di sole. Era il vino che fumigava. Ne
avevo abusato, ero contento e finalmente all'improvviso sbalzato lontano dalla
civiltà, evaso dal presente, senza pensieri.
Però l'euforia passò perché il cuore
cominciò a battere al trotto e talvolta sembrava saltasse l'ostacolo.
Controllai il polso, correva, era zoppo. Intanto avvertivo del gonfiore nello
stomaco, come se le uova e le gallette del pranzo lievitassero. Allora raccolsi
le mie cose con cautela, chiusi le porte e presi a camminare lentamente per
tornare dalla moglie e al mondo. Ogni tanto facevo una sosta.
Prima di raggiungere il paese feci
l'ultima fermata in prossimità del caseggiato denominato "La
Romitina". Il muro della cancellata, all'inizio del viale, una volta
sormontato da due leoni, per il suo movimento a semicerchio pareva accogliesse
con un abbraccio chi arrivava. Sedetti su un tronco di quercia. Presi la testa
tra le mani. Scrissi nella mente, a caratteri cubitali, che solo con la poesia
si può rivivere nel passato e dal presente non si esce, che si va sempre solo
avanti, come fa l'intero mondo, il quale non recede mai, né ripercorre le usate
strade.
Quando arrivai a destinazione i fumi
del vino erano scomparsi e non sentivo più né il cuore, né lo stomaco. I cinque
chilometri a piedi erano stati taumaturgici.
E quando mia moglie, che impastava
le polpette, mi vide sentenziò, senza alzare lo sguardo dalla spianatoia:
"Le tue settimane sono
corte!"
"Sono tornato in anticipo
perché ho litigato con le uova."
"Ho l'impressione che tu abbia
bevuto."
"Sai bene che sono
astemio."
Il battibecco durò un altro poco.
Poi venne il sereno.