martedì 28 settembre 2021

Zio Franco (by Franco Ruinetti)

  

LO ZIO FRANCO


Nella bella stagione, di domenica mattina, mio zio Franco, carabiniere in pensione, stazionava fuori dal bar sotto casa con un bicchiere sul tavolino e il quotidiano spalancato. Mi fermavo volentieri.

"Cico, porta un altro frizzantino."

"No, il vino,di mattina, è sgarbato.

"Non è vero, questo è leggero, fa il solletico in bocca.

Era l'estate dell' '80 e lui aveva l'età del secolo.

Era uno zio acquistato perché aveva sposato una sorella di mio padre. Nato a Bonorva, aveva lasciato la Sardegna a vent'anni e non vi era più tornato. Del dialetto sardo non gli era rimasto nulla. Diceva che aveva purgato la lingua a Siena, città della sua prima destinazione, dove era andato a lezione da una insegnante e aveva conseguito la licenza, forse di quinta elementare, che allora era un bel titolo. Parlava con correttezza e propietà. Conosceva abbastanza il D'Annunzio, al suo tempo un idolo, e, insomma, aveva una certa cultura, che non ostentava, ma talvolta traspariva, luneggiava.

"Perché non sei mai tornato in Sardegna?"

Schivava la domanda.

"La mia patria or è dove si vive."

Aveva concluso il servizio come maresciallo comandante a Castiglione sul Trasimeno. Una volta mi raccontò, direi a colori, un episodio che considerava una sconfitta e, dopo anni, ancora gli bruciava.

Il fatto è che nei paesi, nelle campagne intorno al lago si destreggiava un ladro professionista. Rubava nelle case, nelle chiese, razziava polli, anatre, perfino un vitello. Una sera il maresciallo, su circostanziata denuncia, con un giovane carabiniere, andò a casa sua per arrestarlo. Suonò, nessuno rispose, entrarono. Sentì uno scalpiccio. Le due stanze erano vuote, Pensò fosse sotto il letto:

"Preluttini, so che ci sei, vieni fuori."

Silenzio.

"Vieni fuori, sennò ti sparo, ho il caricatore carico, t'ammazzo sette volte."

Rispose:

"Cucù sette!"


Sotto il letto c'era un'apertura e Preluttini scomparve nel vicino bosco.

Avrei proprio voluto saperlo perché non era mai tornato in Sardegna, nel paese natale. Forse aveva litigato con i familiari o aveva vissuto una scottante delusione d'amore. Chissà? Glielo chiesi ancora, ma non rispondeva, scantonava. Possibile non sentire il richiamo, la nostalgia dei parenti, della giovinezza? Come dimenticarsi delle origini?

Verso il '70 comprò un motociclo, 48 c.c. per recarsi tutti i pomeriggi a San Giustino umbro. Si intratteneva nel Cantinone, poi andava al castello dove, mi disse, aiutava il fattore. Non so a fare cosa, Tre o quattro volte l'accompagnai io con la Cinquecento e lui si dimostrò contento perché ero suo compagno di briscola e tressette. Diceva che sapevo giocare. S'accalorava, ci teneva molto a vincere la "bicicletta", così chiamavano quel bicchierone di birra con la gassosa, che, con la voglia di vivere, mesceva la vistosa proprietaria.

Un pomeriggio volle che andassi con lui al castello dove conobbi il marchese Bufalini, che mi è rimasto stampato nella mente. Era un uomo possente. Parlava piano, misurato, la sua voce non aveva flessioni dialettali, né cadenze locali, mi sembrava uscito da un libro di grammatica. Fu accogliente, subito familiare.

E' stato l'ultimo nobile che ha vissuto in quel castello. Lo pensai un esule, lontano dal suo tempo.

Una mattina del solleone '86 fu l'ultima volta che mi sedetti a quel tavolino fuori dal bar per bere con lui il frizzantino. Mi disse:

"Tutte le sigarette 'Nazionali' che ho fumato quando ero in servizio m'hanno lasciato in eredità un tumore che ora mi sta fiorendo nei bronchi."

"Ma che dici!?"

"Vedrai che è così. Domattina farò i raggi, ho l'appuntamento all'ospedale."

Il referto fu che era 'sano come un pesce'.

Invece, due o tre mesi dopo fu ricoverato per la chemioterapia, poi il figlio Adriano lo portò e curò a casa sua a Montichiari.

Lo andai a trovare. Era allettato.

"Portami la pistola, mi disse. E' in fondo al baule. Non voglio più stare a carico di questa brava famiglia. Portamela,"

"Non te la porto, devi guarire,"

"Mi fa piacere che tu sia venuto. Ma non prendermi in giro."

Sul comodino, oltre alle scatole con le medicine, c'era un bicchiere con tre sassi piccoli. Prima di partire chiesi ad Adriano a cosa servivano.

"Per lui sono sacri, mi spiegò. Vengono da Bonorva, li ha sempre portati con sé."

 


Franco Ruinetti

lunedì 27 settembre 2021

Gli spilli di maneglia (476)

        

Con l'autunno alle porte si infiamma il dibattito nazionale fra Green Pass e noVax....

lunedì 20 settembre 2021

Gli spilli di maneglia (475)

       


...ultime serata sotto le stelle prime di infilarsi nelle serate autunnali da focolare....


lunedì 13 settembre 2021

Gli spilli di maneglia (474)

      


...da oggi tutti a scuola, l'estate è un ricordo e al mare restano soltanto gli ultimi inossidabili fedelissimi....


martedì 7 settembre 2021

Quasi un consuntivo (by Franco Ruinetti)

 

  

QUASI UN CONSUNTIVO

 

E' da quando ero in terza classe elementare che non scrivevo più il riassunto della mia vita oltre la scuola o il diario. Allora lo assegnava, come compito a casa, il giovane maestro Botta, che è un bel ricordo all'orizzonte del tempo, morto da poco, intorno ai cento anni. Era bravo, frequentavo le lezioni volentieri. Non procedeva nel programma se tutti non eravamo al passo. In un tempo in cui le bocciature erano normali anche in prima elementare, lui non bocciava.

Assegnando quel compito (che poteva avere vari titoli (Cosa ho fatto ieri dopo la scuola oppure Diario degli ultimi giorni) Botta voleva sapere come si passava il tempo libero per conoscerci meglio. Io parlavo di mia mamma, che faceva da mangiare e tagliava, cuciva i vestiti per me e mia sorella. Parlavo di mia nonna, sempre vestita di nero, che spesso mangiava la pappa col pomodoro perché non aveva 'né spine, né ossi', che firmava piano piano con la croce e, alle votazioni, mise la croce su tutti i simboli dei partiti per non fare torto a nessuno. Una volta raccontai che una domenica pomeriggio la portai al cinema. Allorché sulle schermo passò silenzioso un funerale, lei si fece il Nome del Padre e mormorò una preghiera.

Scrivevo di qualsiasi argomento, dei calci negli stinchi durante le partite di calcio, che una notte avevo visto il diavolo con la lingua di fuoco, che non mi piaceva il baccalà (a quel tempo costava poco) e lo mangiavo per non fare torto a mia madre che lo preparava con amore.

Allora, per lo più, nel compito scrivevo la cronaca di un giorno, che corrisponde ad una capriola del mondo intorno a se stesso. Ora, una tantum, il compito me lo assegno da solo. Giunto in prossimità dell'occidente, voglio riflettere, per quanto m'è consentito, su qualche motivo occorsomi durante il percorso che ho fatto, a cavallo del pianeta dove sono capitato, intorno al sole, per otto e più decenni, ad oltre 100.000 Km orari.

E già qui comincio a perdere il comprendonio, non ci ho mai capito niente. Ma mi conforta il fatto che anche i grandi geni, affogano nel tempo e nello spazio.

E' così: nacqui con i semi delle domande, che crebbero fino ad essere alberi senza i frutti Avevo fretta di diventare grande per l'illusione che gli adulti sapevano tutto: perché c'erano, chi erano, dove andavano a finire. Ero filosofo in nuce, cercavo le risposte che erano ermeticamente nascoste nella nebbia della mente.

La mia fanciullezza è stata una favola bella e triste. Occhi tondi, colmi di stupori, volti verso l'alto luminoso e vuoto. Ricordo i periodi, due o tre giorni, di febbre, durante i quali dovevo restare a letto, sempre solo in quella grande camera. Di notte sentivo il fornaio cantare: 'libiamo, libiamo ne' lieti calici che la bellezza infiora...'

Sul fare dell'alba il barrocciaio parlava ad alta voce con la cavalla, come fosse sorda, mentre le sistemava i finimenti.

Passò il periodo dei perché. La prima e seconda adolescenza furono il periodo più spensierato. O più stupido. Galleggiavo alla deriva nella vita. Nessuno poteva prendermi per la cavezza. Non ce l'avevo. Ero il centro del mondo. Una mattina, quando la primavera esplodeva nei giardini, nei boschi e mi rimescolava il cervello, convinsi quattro amici a saltare la scuola. Di conseguenza ci sospesero, ma io non tornai più in classe, studiai da solo, soprattutto di notte, quasi di nascosto.

Nell'arco della maturità mi sono impegnato molto, m'è mancato il tempo per fare tutto quello che m'è capitato in testa. Cose belle e brutte, ma il diario o il riassunto non è il confessionale. Ora tiro qualche somma, come a dire: faccio un inventario all'ingrosso. Mi sono sposato una volta sola, fedele per pigrizia. La convivenza si è svolta ad intermittenza, tra le burrasche, anche baruffe e gli stagni delle bonacce. Salute buona, non ho fatto un giorno d'ospedale. In vecchiaia qualche pillola, poche, non sono convinto che siano l'elisir di lunga vita, penso che se da una parte giovano, da un'altra parte provocano danni.

Ho fatto qualche viaggio. Più volte sono tornato nell'antico Egitto, che m'ha stregato. Ma soprattutto ho navigato nei libri per spaziare, con la vista che ho, in varie direzioni.

Nella trasvolata dell'esistenza me ne sono successe di tutti i colori. Ora non voglio rammentare le tinte tristi di quando annaspavo nell'oscurità.

Mi innamorai presto di Eva, che era la prima ed unica ragazza al mondo. Aveva un altro nome. Con me non mangiò la mela. E ci rimasi di stucco quando seppi che aveva incontrato il vero Adamo col quale mangiava tutte le mele del melo.

Ma così è la vita: raramente ho avuto quello che volevo, invece m'è capitato, non so quante volte, quello che non meritavo. Va a capire!

Ecco: d'inverno sono sempre aumentato di qualche chilo, d'estate dimagrivo. Mia moglie diceva che avevo la pancia a fisarmonica.

Ora continuo a briglia sciolta. Ho vissuto più giorni felici o infelici? Per me sarebbe come a dire: ho fatto più discese o più salite? Penso che Berlusconi abbia trovato una strada favorevole. Ma certamente non esiste una regola valida per tutti.

Nello schermo della mente si alternano motivi anche lontani, eterogenei. Mi vedo ragazzo, quando avevo un amico incredibile. Si trattava di un albero di fico vetusto dal tronco enorme screpolato. Sorgeva sul ciglio del campo dietro casa. Vi salivo facilmente e mi mettevo seduto su un comodo ramo. Guardavo le foglie, mani grandi aperte al sole, alla pioggia, al vento. Non c'è più quell'albero da anni e anni, ma mi capita che per distrarmi dalla malinconia ci salgo ancora agile come allora.

Il mio lavoro è stato quello di insegnante. Cominciai nelle elementari e ho finito come preside di liceo. M'era capitato di salire un altro gradino, ma non ne approfittai. Il mio primo incarico fu in Puglia, in un paese addosso alle Murge. Tutti gli scolari avevano le stelle negli occhi. Compresi che il miglior metodo per insegnare, nessun pedagogista l'ha scritto, è quello di voler bene a tutti i ragazzi. Così, per quanto è dipeso da me, (come Botta) non ho bocciato nessuno.

Di allora voglio ricordare solo Pupillo. Ripetente cronico, era arrivato in quinta a 14 anni. Frequentava due o tre volte alla settimana. Arrivava quando poteva, mai in orario. Viveva in una masseria, aiutava il padre nei lavori dei campi. veniva a scuola col cavallo, che era buono, grosso, un maggiorato fisico. Lo lasciava in un angolo dell'orto abusivo del custode, dietro il grande edificio dalla facciata fascista. Una mattina il custode mi prese a parte per lamentarsi che quella 'bestia' faceva 'lo sporco', ma ne faceva tanto. Gli spiegai che doveva essere contento per quel concime gratuito. Niente da fare, a casa sua non voleva 'quello scostumato'. Ma quando gli suggerii, serio, di portargli l'orinale sembrò sgonfiarsi e se ne andò borbottando come una pentola di fagioli in ebollizione.

Pupillo: appena conseguita la licenza elementare mi portò un cestello di vimini con le uova. Non ho saputo più niente di lui. Spero che la vita gli sia stata maestra migliore della scuola.

Ma ora basta scorribandare nel passato, non voglio più parlare di giorni lontani sotterrati nel tempo. Già: il tempo: trasforma tutto, ha cambiato anche me, che da adolescente avevo guizzi azzurri di libera pazzia, poi gli anni mi hanno messo il giogo e sono diventato un altro.

E vengo ad oggi. Il sole, che è nella costellazione del leone, declinava verso i monti.

Era l'ora dolce, raccolta dell'Angelus e io stavo seduto su una panchina di legno prossima ad un muretto basso sopra il quale transitavano, come su una superstrada, file disordinate, orde, di formiche. Ce n'era una vecchia, obesa, incedeva con difficoltà. Vigliacche le colleghe, non si preoccupavano di lei, avevano fretta. Addirittura qualcuna non la evitava, le passava sopra.

Anche gli umani, spesso, si comportano come quelle formiche, non possono perdere tempo.

All'orizzonte il sole intonava, bella e struggente, la propria agonia con nuvole rosse e nere, mentre nel concavo cielo insisteva la memoria azzurra del primo mattino.

 


Franco Ruinetti