martedì 27 ottobre 2020

Due cene (by Franco Ruinetti)

 

 

 

DUE CENE

Carletto 

Una telefonata: "Vi aspettiamo domani sera a cena, accenderemo 9 candele alla nonna, una ogni 10 anni."

Fu un invito a sorpresa fatto da parenti incontrati raramente anche perché vivevano in un paese distante una cinquantina di chilometri. Io e mia moglie non sapevamo cosa portare. Finalmente decidemmo per una bottiglia di vinsanto e una scatola di cioccolatini.

La nonna ci accolse festosa, gli altri ci salutarono in fretta, come se ci fossimo visti il giorno prima. L'anziana non dimostrava tutta la sua età: capelli neri ordinati, solo qualche ruga sulla fronte, labbra infiammate. Aveva la mente in piena efficienza.

A metà cena comparve un bambino di circa tre anni. Ad un tratto si mise in ginocchio e cominciò a gattonare.

"Carletto, ti sei svegliato!?"

Non rispose. Aveva una gran testa di riccioli biondi. Era bello. S'infilò sotto la tavola, scomparve. Cominciò a pronunciare parole, come incise nel silenzio, rifinite al cesello.

"Andate a quel paese per un mese, anche due."

Suo padre si rivolse alla moglie:

"Prendilo, portalo in camera."

"No, se ce lo porto piange e non ci lascia in pace... Sapete, queste cose le sente alla televisione e le impara subito. Spero non ripeta le parole di Beppe Grillo e quelle di Sgarbi."

"Capra, capra, capra."

"Meno male: è andato leggero!"

Intervenne la nonna, che tirava calci sotto la tavola, ma inutilmente:

"E' un angelo, figlio del nostro tempo."

E lui parlava come se il suo cervello corresse in discesa:

"Vedo la luna vedo le stelle vedo Caino che fa le frittelle vedo la tavola apparecchiata carne di topo macinata ridi ridi che la mamma ha fatto i gnocchi buon appetito a tutti belli e brutti."

La nonna tirava calci, ma lui non era alla portata dei suoi piedi.

"La Teresa quando è festa non la regala la impresta."

E così, pressappoco, per un quarto d'ora causando sorrisi a denti stretti. Per decenza non rammento le espressioni più pruriginose, che ho sulla punta della lingua. Ma le sanno tutti.

Finalmente uscì allo scoperto, salì in braccio al babbo. Tacque, era impegnato, con molto scrupolo, a scartare e mangiare i cioccolatini.

Suo padre gli tratteneva il braccio:

"Basta Carletto, ti fanno male."

"Lascialo fare, sennò piange."

"E' un angelo, poverino!"

Mangiando non diceva spropositi.

Pensavo agli angeli muti dipinti, di marmo o di stucco, che in paradiso non vedono la televisione.

Quando salutai la nonna mi stampò sulla guancia un bacio autenticato col timbro rosso.

"Torna presto."

"Sì, certo."

Dentro di me: "Tornerò dopo cena, quando gli angeli, quelli senza le ali, sono nel letto:"

 


Il venditore di sogni

"Vieni", mi disse Giulio, incontrato per caso e che non vedevo da un bel po'.

"Dove?"

"A scroccare una cena di pesce. Vogliono molte persone, più saremo e più sembreremo, fanno una dimostrazione. Sarà come all'inaugurazione di un negozio o di una mostra di pittura. Io entro, mi guardo intorno, guardo i quadri, mangio le tartine, bevo, dico 'bello', 'belli' e me ne vado.

Ero contento di averlo rivisto, le sue chiacchiere mi abbagliarono e, siccome quella sera avrei dovuto mangiare in solitudine perché moglie e figlio erano dai suoceri, accettai senza sapere bene cosa, come dire: al buio, per stare in compagnia.

L'appuntamento era in un albergo a tre stelle. Andammo. Ci accompagnarono al tavolo. I camerieri ci sistemarono le sedie sotto al sedere. e, mentre mi accomodavo, guardando di qua e di là, valutai che, ad occhio e croce, saremo stati una quarantina.

La cena cominciò con un aperitivo al sapore di arancia. Seguì una impepata di cozze. E, mentre servivano i tagliolini alle vongole, un signore di mezza età, in doppiopetto scuro, fece montare uno schermo. In una semioscurità discreta, confidenziale, iniziò a dimostrare le qualità dei suoi materassi, scendiletto, guanciali, lenzuoli, coperte e quant'altro. Parlava come un presentatore televisivo, con proprietà e scioltezza. Diceva che dormire bene è salute, vivere meglio e sui suoi materassi si fanno sogni piacevoli, la notte è una vacanza. Poi chiamò alla sua cattedra i commensali a lui più vicini cioè una giovane coppia di sposi, i quali prenotarono, a spron battuto, un materasso a molle di due piazze e i tappeti. Quindi invitò al suo pulpito un anziano grosso e alto. Gli propose vari acquisti che comparivano sullo schermo, ma l'acquirente non acquistava. Allora il dimostratore cominciò ad alterarsi e, tra l'altro, diceva che quell'albergo non era la Caritas. Seguì il litigio, con parole sonore, ma senza eccessi. Mi parve uno scontro educato. Supposi fosse una sceneggiata per vendere di più. Dopodiché furono in diversi ad approfittare dell'occasione. Il mio amico prese una coperta ad una piazza. Io mi sentii obbligato a prenderne una piccola per mio figlio e una per il letto grande.

Uscendo gli dissi: "Giulio, volevamo scroccare una cena, invece ci hanno alleggerito i portafogli."

"Non abbiamo sprecato i soldi, abbiamo mangiato bene e portiamo a casa cose utili,"

Mia moglie considerò attentamente le due coperte. Le soppesò, stropicciò. E, mentre taceva, in quel silenzio che poteva scoppiare all'improvviso, mi passò per la mente la poesia del Leopardi modificando il titolo: "La quiete prima della tempesta".

Finalmente sparò la sintesi: "Non le hai pagate poco!".

Temevo di peggio. Imparai che i sogni belli costano cari.


Franco Ruinetti

lunedì 26 ottobre 2020

martedì 20 ottobre 2020

Complice la primavera (by Franco Ruinetti)

 

 

COMPLICE LA PRIMAVERA

 

Davo la colpa al Dewey quando saltavo la scuola, cosa che capitava con una certa frequenza. I prati, il biancospino, il cielo sereno erano invitanti. Avevo letto in una rivista (e mi aveva convinto) l'attivismo pedagogico, che considerai vita, non prigione.

Quella mattina fu la terza volta consecutiva che non mi inserii nel flusso degli altri ragazzi. Andai di nuovo controcorrente e, complice la primavera, spiccai il volo del salto in lungo. Superata la porta medioevale del paese, vidi una folla di persone formicolanti, un andirivieni e, da un platano all'altro, alto, teso sopra la strada, uno striscione rosso con la scritta in bianco, TRAGUARDO. Sull'asfalto avevano tracciato una grossa riga con la calce. Mi intrufolai tra quella gente. Appresi che stava per partire un'importante gara ciclistica, non so o non ricordo di quale categoria. Gli atleti dovevano ripetere tre volte un circuito intorno alla valle per un totale di oltre 100 km con quella salita che spacca in due un paese. E' così ripida che, dicono, anche le galline tirano i freni quando scendono e hanno il fiatone quando salgono.

Il termine della competizione era previsto per le 12,30, in perfetto accordo con la campanella di fine lezioni.

Mi passò per la mente che i corridori, con quelle magliette multicolori, luminose, fossero come fiori di un giardino animato.

I concorrenti erano numerosi. Ad alcuni, seduti nelle sedie del bar, massaggiavano le gambe. Altri se le massaggiavano da sé. Finché tre fischi secchi li chiamarono al via.

Io accettai al volo di salire sul sellino posteriore di una motocicletta. Mi dettero una bandierina rossa da sventolare il più spesso possibile. Per prima partì la macchina della giuria col direttore di gara, poi salpammo noi con la bandiera del pericolo, che si doveva precedere di una cinquantina di metri i ciclisti.

La gara si svolse con vari tentativi di fuga, finché due ragazzi presero il volo.

Quando furono a poche centinaia di metri dal traguardo caddero per evitare un cane in mezzo alla strada. Non aveva rispettato il mio sbandieramento del pericolo. Uno dei due era finito contro un paracarro e la sua bicicletta era inservibile.

"Vai, corri a vincere!"

"No, non è giusto!"

"Ti dico vai!"

"No."

 

Arrivarono al traguardo insieme, uno in sella, l'altro in canna della stessa bicicletta. Li accolse un tiepido battimani. Neanche il cronista col microfono aveva capito cosa fosse successo. La gara si concluse con due vincitori, cosa impossibile in questa disciplina.

Io rimasi colpito da tanta lezione di lealtà, altruismo. Due giovani, poco più grandi di me, che lottavano l'uno contro l'altro, avevano compiuto un'impresa al di sopra delle regole, esaltante, della quale non parlarono i giornali ed è rimasta nascosta dietro un angolo del tempo.

"Bella mattina, è meritato viverla", pensai, però, tornando a casa, con i libri sottobraccio, sentii il cuore pesante perché ero diventato un ladro di libertà. Ero un selvaggio perché amavo imboscarmi per evitare le fucilate degli sguardi e certe risatine di commiserazione.

Da allora smisi di andare a scuola, ma cominciai a studiare seriamente. Passai le ore, soprattutto notturne, nell'unico posto dove potevo isolarmi, nella fredda cantina, in compagnia di tutte le materie con la speranza di tagliare il traguardo insieme agli studenti normali che avevo abbandonato.

Certo: se potessi ora fare un balzo indietro nei decenni, andrei ad incontrare me stesso, quel ragazzo che ero, per tirargli le orecchie, tutte e due, pur rischiando che il ribaldo mi rispedisca nel presente con un calcio nel sedere.

Purtroppo una simile marcia indietro non esiste. Al suo posto c'è il pentimento che capita nelle radure della solitudine. E' fatto di nuvole nere, tristezza, brutto tempo.


Franco Ruinetti

 

 

 

lunedì 19 ottobre 2020

martedì 13 ottobre 2020

Nell'inverno del '55 (by Franco Ruinetti)

 

 

NELL'INVERNO DEL '55

Avevo 18 anni, qualche volta andavo al circolo l'Homo Nero dove s'incontravano i giocatori di carte (qualcuno perse la casa), dove c'erano i biliardi e un paio di stanze per leggere i giornali, chiacchierare. Poi gli anni sono frullati, non ho potuto più concedermi pause piacevoli e vacanzaiole. Ora mi fanno compagnia i ricordi, che vengono dalle lontananze, luminosi di adolescenza.

Al bar c'era Chicche, animatore, professionale, anche simpatico. Aveva vinto i campionati del mondo del caffè. Che non esistevano. Il bancone dove troneggiava con la macchina dell'espresso era sopraelevato come l'altare nelle chiese romaniche.

Il barista attaccava discorso con tutti. Aveva una voce baritonale che riempiva il locale. Con me parlò del suo trisavolo che aveva partecipato alla spedizione dei Mille ed era tornato a casa con le stampelle per morire povero in canna. In suo onore copriva i tavolini con le tovaglie rosse.

"E' stato un eroe che ha liberato l'Italia per darla in mano a certi cialtroni di oggi che hanno fatto carriera sia nel fascismo che nell'antifascismo. Li conosco, li ho scritti in un quadro."

Una volta mi fermai a parlare con la signorina Celeste seduta vicino alla finestra. Era una donna enorme di mezza età. Chicche la trattava con grande gentilezza. Le faceva trovare un fiore con lo stelo infilato in una bottiglia piena di acqua in mezzo al tavolo. Le faceva i complimenti:

"Lei è più maggiorata fisica della Mangano e della Pampanini."

Poveretta! Le traboccava la ciccia da tutte le parti. A metà pomeriggio prendeva il tè all'usanza inglese. Ci inzuppava un bombolone. Camminando brancolava sui tacchi a spillo.

Seduto ad un altro tavolo stazionava il sor Angelo, detto Pastina quando non era presente. Battibeccava con Chicche. Sfogliava in continuazione le riviste mentre rigirava in bocca mezzo sigaro spento. Appresi dai suoi scambi verbali e dalle frecciate col barista, che beveva una ventina di caffè al giorno. "Mi servono per mettermi in moto, carburare."

"Che dice!? Per lei è sempre domenica, la fatica più grossa è di reggersi seduto."

"E' quella di sopportare lei."

"Non legge neanche i giornali, guarda solo le figure."

"Mi bastano per capire tutto."

Vestiva elegante: completo scuro, cappello nero a larga tesa, papillon rosso su camicia bianca, un fazzoletto rosso a tre punte sul taschino. Personaggio enigmatico, almeno per me.

"Beato lei che è nato con la camicia, voglia di lavorar saltami addosso."

"Sono uno stacanovista del pensiero, ma lei non può capire."

Solo una volta m'affacciai nella sala dei giocatori di carte. Mi sembrò un contenitore di silenzio dove veleggiava la caligine acre dei fumatori di sigarette.

Preferivo sostare un po' nella grande stanza dei biliardi dove trovavo un posto comodo in una delle sedie per gli spettatori, che erano sulle pedane alte lungo i muri. Feci anche qualche partita, ma persi sistematicamente, quindi smisi per mancanza di soldi e di avversari più principianti di me.

Ricordo: stetti qualche mese senza ripresentarmi a quel circolo. Un giorno, durante una escursione nello studio, mi avevano nauseato quelle che per me erano imbecillate presuntuose di Nietzsche, autore di danni all'umanità. Non ce la feci più a digerire il suo monologo libresco. Allora uscii, camminai svelto rasentando i muri delle case per ripararmi dalla pioggia. Pensavo di andare a prendere un caffè insieme a Pastina, il nullafacente filosofo pure lui, perditempo, ma simpatico. Però, quando arrivai ebbi la sorpresa del portone sbarrato e muto, senza alcun avviso. Silenzio, solo pioggia.

Il giorno successivo seppi, da un conoscente, che avevano trovato Chicche seduto ad un tavolo con la testa sopra le braccia appoggiate sulla tovaglia rossa. Ci rimasi male. Molto. Mi venne in mente l'avesse freddato una pallottola del fucile Mongiana, in dotazione all'esercito borbonico, vagante nello spazio che, dopo quasi un secolo aveva fatto centro nel suo cuore. Poi tolsero dal muro la piccola scritta HOMO NERO. Fu sostituita, in caratteri cubitali, col nome di una banca.


Franco Ruinetti