RAMOV
Non so quale fosse il suo vero nome. Lo chiamavano Ramov, di certo perché aveva partecipato alla campagna di Russia. Era uno dei pochi reduci che, sopravvissuto alla guerra delle arni e dell'inverno era ancora tutto intero. Aveva, però, gravi limitazioni mentali e fisiche. Camminava con cautela perché il gelo gli aveva intormentito i piedi. Per tornare ci aveva messo un paio di mesi. Lo trovarono seduto sull'ultima panchina del giardino, fuori porta, il giorno successivo alle votazioni del '48. Nei primi tempi, qualche volta ragionava bene o quasi, soprattutto a luna calante, altrimenti la sua mente, come il vino, s'intorbidiva.
Io lo conobbi qualche anno dopo. Aveva il viso solcato da profonde rughe. Mi dissero che lo aveva raccolto un parente, ma compresi, non so se a ragione o torto, che per lui la guerra continuava e ora il nenico era la stessa vita quotidiana.
Ramov usciva tutte le sere, col tempo buono o cattivo, verso le nove e si adagiava su quella panchina, che considerava sua. Avrebbe potuto prenderci il domicilio per le prime ore del buio. Se c'era una coppietta a parcheggio lui la spintonava, rivendicava tacitamente il proprio diritto di proprietà.
C'era sempre qualcuno che s'intratteneva con lui per cercare di dialogare, ma la maggior parte dei passanti tirava dritto; forse, vedendolo in malarnese, lo pesava come uno scarto umano.
Ramov non rispondeva a tono, ma con parole sciolte e rumori, che io rimuginavo e mi facevano pensare alle pagine del futurismo, da me appena conosciute, ai quadri nebulosi dell'astrattismo con risonanze e significati in lontananza.
Mi compare ancora il suo sorriso di due o tre denti nel vano della bocca quando gli davano le sigarette. Allora si toglieva il berretto di colore marrone incerto, floscio e accennava un inchino. Mi faceva tristezza e, nello stesso tempo, simpatia. Quello che so di lui lo intuii, anzi lo supposi, ma forse ero fuori strada o me lo riferirono.
Capitava che tra i suoi mugolii formulati a strappi e spesso musicali, componesse delle locuzioni.
“Inverno vincitore, inverno Mussolini”. E poi: “Invisibile diavolo, via.. via (urlava) tutto bianco, non morire, no.. no.. no.”
“Tapum mamma tapum...”
Al suo ritorno lei non c'era più. Quando lo seppe pianse, si disperò, disse che era tornato soltanto per lei. Ma non aveva fatto in tempo ad abbracciarla perché era morta con 'una fucilata d'amore'.
E poi, una specie di ritornello: “Alina doppia... brava, doppia...” Va a capire! C'era chi diceva che Alina era stata la sua compagna, che l'aveva curato e salvato, quindi, quando lui cominciava ad inciampare col corvello, l'aveva spedito, eccetera, eccetera. 'Doppia' poteva valere come apprezzamento, ammirazione che equivalevano a grande e anche bella.
“Vino, chiedeva, no vodka, insisteva, vino.”
“No, no Ramov,” era la risposta secca.
Se beveva un bicchiere s'immalinconiva e piangeva. Le lacrime copiose scendevano nei solchi delle rughe.
Una mattina di dicembre era su quella panchina con la bocca storta, gli occhi aperti, inbiancato dalla prima neve.
Mi capitò per caso, dopo diverso tempo di rincontrarlo al cimitero. Sulla lapide, sotto il nome in stampatello c'era scritto, in corsivo, Ramov. Non l'avrei di certo riconosciuto. Era castano, ricciuto, pelle liscia con la luce dei vent'anni, in giacca e cravatta.
Era un bel giovane.
Franco Ruinetti