LE PRIME USCITE
Da Pasquale
Finita la guerra regnava il silenzio. Non più cannonate, né allarmi, né aerei. Dopo tante percosse il mondo era stordito. Ricordo un agosto col sole alla massima potenza quando un pomeriggio, a me e a mio cugino Romano, ragazzini di seconda e terza elementare, le madri, dopo le raccomandazioni del caso, affidarono l'incarico di andare a comprare le uova da Pasquale, contadino che abitava in una casa nel bel mezzo della pianura, lontana dal paese tre chilometri più o meno. Eravamo leggeri, liberi come le rondini. Quell'uomo, dal cappello a larga tesa, sbertucciato e rincalcato fin quasi alle sopracciglia, che qualche volta era venuto a portare il pollo o le patate, svegliava la nostra curiosità. Di lui avevamo talvolta sentito parlare. Lo definivano santone o stregone. Il mio cugino ne sapeva più di me. Mi disse, mentre si camminava, che era stato lui a salvare una vacca, non il dottore.
“E come fece?.”
“Col prezzemolo. Glielo mise nella natura:”
“Come sarebbe a dire?”
“Nel culo.”
“Ah!”
Rimasi perplesso, sospettai che curasse così anche le persone.
Dopo una delle tante curve, che annodavano la strada, ci fermammo, Non avevamo resistito all'invito di un gelso dalle more nere mature, che ci macchiarono dita e labbra, come fossero fatte con l'inchiostro di china e dall'ombra rinfrescante. Quando fummo a destinazione si restò in piedi nell'aia con le galline un bel po' ad aspettare il nostro uomo, che, pur avendoci visto, continuava a zappare nell'orto. Prima che ripartissimo Pasquale strappò delle foglie da un pioppo prossimo al pagliaio e ce le spalmò dentro i cappelli. Disse:
“Così non prendete colpi di sole.”
L'umiliazione
Una domenica andai al campo sportivo per vedere la partita. Non avevo una lira e non potevo entrare, Poi notai due ragazzi girare l'angolo, Li raggiunsi e imitai arrampicandomi a fatica sulla recinzione. La squadra del mio paese vinse e io scrissi 3 a 1, col dito, sulla polvere della corriera degli avversari, quando m'arrivò un calcio nel sedere. Guardai quell'uomo e presi a correre, come a scappare dall'umiliazione e non dal dolore che non avevo sentito. Poco tempo dopo lo rividi, era proprio lui in fotografia che sorrideva da un annunzio funebre del giornale. Mi guardava mentre mi parve di sentire una carezza scivolare sui capelli.
I tuffi
La libertà mi ubriacò. Un paio di volte, invece che alla dottrina, andai a vedere alcuni calciatori che si gettavano dall'alto di un ponte nel sottostante gorgo. Volavano. Ogni tuffo uno scroscio di applausi. Mia madre, quando seppe che ero andato al Tevere e non in chiesa, mi disse che m'avrebbe mandato in seminario, che, per me era il carcere dei ragazzi. L'eco della minaccia m'inseguì per qualche giorno. Pensavo alla gonnella nera come castigo a vista.
La liberta'
Frequentavo ormai la quinta elementare e, dopo pranzo, avevo il consenso per uscire. Spesso andavo al parco a giocare, sennò salivo sulla collina. Mi pareva di scoprire il mondo e di respirare la libertà. Una volta mi fermai nei pressi di una casa colonica. Mi attrasse la presenza di un cane che mi guardava a testa bassa, non mi abbaiava e mi salutava con la coda. Era al pagliaio dove gli avevano scavato la cuccia. Il suo mondo corrispondeva a quello di una breve catena fermata ad un caviglio piantato in terra. Fu subito amico e presi a carezzarlo. Gli parlavo e lui mi riaspondeva con mugolii. Aveva le costole a vista. Guardava il sole con gli occhi torbidi. M'accorsi che era cieco. Dopo qualche giorno tornai a trovarlo, ma non c'era più, la cuccia era un buco vuoto.Poi lo rividi e fu lui a venire da me una mattina tra il sonno e la veglia. Aveva gli occhi limpidi e, mugolando, mi disse che dove ora si trovava non esistono le catene e che quel posto, dove non possono comandare gli umani, è la patria della libertà.