UN FILOSOFO DI STRADA
Era estate e avevo 18 anni. Un sabato sera eravamo una dozzina seduti sotto il cedro del giardino, davanti al bar, all'ombra della luna piena, tutti giovani o quasi, più o meno amici. Gildo si volse verso di me:
“Appuntamento domani alle 21.”
“Che vuoi dire?”
“Sono sempre solo per tutto il viaggio, se mi fai compagnia non affogo nella noia. Ti aspetto alla Buitoni, si fa qualche sosta, ci si ferma mezza giornata a Barletta, si arriva a Bari e venerdì sera saremo di nuovo a Sansepolcro, a casa.”
Ci pensai un poco, solo un poco.
Avevo qualche soldo in tasca per essermi improvvisato cameriere al bar, supplente per una settimana.
“Va bene.”
Mia madre mi preparò un cartoccio di polpette ricche di patate e povere di carne.
Arrivai puntuale all'appuntamento. L'autotreno, così lungo e con tutte quelle ruote, mi sembrò un enorme millepiedi meccanico. Cadeva una pioggia piagnucolosa.
“Monta e stenditi nella branda, fai una pennichella, io devo stare attento perché la pioggia porta male.
Partimmo col gracidare dei tergicristalli.
L'autista, più attempato di me, non era un mio amico stretto. Ci avevo giocato qualche volta il caffè a briscola e 151. Sapevo che era venuto da Roma da un paio di anni. Fisicamente era un torello. Saltava subito in bestia. Una volta usò la testa come clava e catapultò per terra uno più grosso di lui.
Verso Foligno smise di piovere, cessò il lamento dei tergicristalli e l'autista ruppe il silenzio.
“Sono sempre solo, ore e ore, mangio la strada, faccio la lotta col sonno, parlo con Dino.”
“Dino!?”
“E' la motrice, Sauro è il rimorchio. Ma tu dove vai a scuola, che classe fai?
“Nessuna scuola, ho studiato da me e ho dato gli esami da privatista. Ora, da settembre, frequenterò l'ultimo anno delle superiori,”
“Io ho frequentato mezza quarta liceo. Quella volta, durante la spiegazione dissi alla professoressa: 'Leibniz si dà la zappa sui piedi: se le monadi, come dice lei, sono solo energia, come fanno a diventare cose? -Lei non capisce o non vuole capire...- fu la risposta..., e io, coram populo, mi sentii offeso.”
“Chi era l'insegante?”
“La stronza. Chiesi di uscire.”
“Vada.”
“Dava del lei per tenere lontani gli altri. Non andai al gabinetto, uscii dall'aula, dalla scuola e non ci sono più tornato. Forza Dino, non riduco la marcia, non c'è il sovraccarico, la salita è garbata. A Colfiorito c'è una chiesa protoromanica che, quando ci entri, pare di fare una sosta nell'aldilà. Vai Dino, ancora non hai il fiatone.”
Parlava con me e col camion dando delle pacche da amico sul coperchio del motore.
A Civitanova ci fermammo in un parcheggio lungomare. Il sole all'orizzonte saliva tra sprazzi di nuvole rosse e nere. Mangiammo delle polpette col pane.
“Fritta è buona anche una ciabatta”, sentenziò Gildo. Si riprese la marcia. Si correva lungo il fianco dell'Italia e la giornata mi pareva ubriaca di luce. In riva al mare ancora polpette.
Ad un certo punto Gildo, col sottofondo del motore, cuore meccanico che non perdeva un colpo, mi raccontò di quando orinando dietro una siepe trovò il dipinto di un santo che, dopo qualche giorno portò in caserma dove un carabiniere gli rivolse domande fino alla noia:
“Come l'hai trovato?”
“Col cazzo... E quello s'arrabbiò minacciando di arrestarmi, invece mi mandò via.”
Prima di una certa curva fece le corna alternando le mani sul volante e pronunziando:
“Barbariccia,
Graffiacane, l'Innominabile.”
“I primi, dissi, so chi sono,
l'altro no.”
“Evoco i primi perché sono l'antidoto dei carabinieri, il terzo, ce l'ho presente come il fumo negli occhi, è il diavolo vestito da amico.”
A Bari mangiammo le salsicce sottolio di Gildo e, al ritorno, a Barletta, comprammo i panzerotti. A San Severo ci fermammo in un ristorante dove conobbi le orecchiette alle cime di rape, buone, il cui amarognolo mi è rimasto indelebile.
Durante una notte del viaggio apparvero spesso 'le sciagurate del sesso'. Stazionavano nelle curve dove i fari le colpivano. Gildo le salutava al volo e, una volta disse, volgendosi a tratti verso di me:
“La vita è bella, ma anche cattiva. Tra loro ci sono anche delle adolescenti, germogli appena sbocciati, fiori gettati nel concime. Vedi: tra gli uomini ci sono i santi, ma ci sono anche i vigliacchi e, al proposito, i papponi, che sono presenti, ma si coprono di buio.”
“Sei un filosofo.”
“Sì, un filosofo di strada. Nella solitudine e nelle ore della notte vengono, sento e vedo i pensieri. Spesso penso alla mia convivente che mia madre vorrebbe lasciassi. Ma l'amore è una calamita che stringe forte. E inoltre è vero: è cieco.“
“Quella di tua madre potrebbe essere una forma di gelosia...”
Io cercavo di dirottare il discorso, ma non era possibile. Lui voleva sfogarsi e insistette nell'argomento per parecchi chilometri.
A giorno fatto arrivammo di nuovo a Civitanova, poi a Colfiorito, a Foligno e, nel pomeriggio sbarcammo alla Buitoni.
“Grazie Gildo.”
“Grazie a te della compagnia. Ciao. Alla prossima occasione.”
Quindi si spense l'estate, passò l'autunno e un giorno delle vacanze natalizie appresi che Gildo era ricoverato in ospedale.
Andai a trovarlo. Lo avevano parcheggiato in una stanzetta con due letti. Mi sedetti su quello libero. Il lenzuolo copriva Gildo fino al mento. Una leggera nebbiolina gli colorava di giallognolo il volto.
Faticavo a nascondere l'impressione che mi faceva. Quella testa dai capelli neri, lunghi, folti, come mossi dal vento, ora era nuda.
“Da quanto tempo sei qui?”
“Non lo so. Ma so che questo è l'ultimo viaggio, che, tra poco, scaricherò il peso del corpo.”
“Ma che dici?”
“Dico che stavolta non mi fermano i carabinieri per chiedermi la patente.”