ISTANTANEE
La mente è come il
mondo, non sta mai ferma. Negli enclave o intervalli tra una faccenda
e un'altra alcuni motivi del passato rimbalzano nello specchio del
presente, altre volte le idee si scapricciano libere e acrobatiche.
Eccola! La Linda, mia amica da sempre, è alla spiaggia che si rigira
su una brandina per fare la pelle bruna. Con quei capelli chiari
appare come un ossimoro umano. E' double face: d'inverno scandinava,
nella bella stagione africana. Ama la grande estate, della quale non
perde un giorno per paura, forse, d'essere ripudiata dal sole geloso
e, come la mitica Clizia, venire trasformata in girasole.
E poi la memoria vola nel mese di maggio di un anno lontano. Mi porta nell'orto di Gildo, amico da quando eravamo nello stesso banco della scuola elementare, un uomo di taglia doppia x. Mi vedo con lui in un angolo sotto il pergolato dove ha coltivato e cura un'aiuola di rose rosse. Siamo immersi nel silenzio incrinato dal mormorio del torrente contiguo che trascina il tempo verso la valle.
“Le piantai insieme a mia moglie Licia. Le piacevano, le accarezzava, baciava. Erano la nostra bandiera. Le spine aguzze raccontavano i litigi, il profumo era la brezza delle oasi serene, il rosso era la dolcezza dell'amore.”
“Però! Mi sorprendi con questo sfarzo di sensibilità.”
“Era brava... E' morta presto, troppo presto, Ma quando sono in questo posto mi parla ancora...”
All'improvviso... sentendo zoccolare una donna, sospese il doscorso.
“Ti presento la mia compagna Tonia.”
E lei, passando le forbici da potare nella sinistra, mi porse la mano destra.
“Piacere.”
“Piacere.”
Quindi, rivolgendosi a Gildo:
“Taglio tre o quattro di queste testone.”
Poi, guardando me:
“Rimanga a pranzo, oggi preparo il risotto con i petali di rose.”
“Bravo! dissi all'amico dopo che lei era sparita in fretta come era venuta, non è male, complimenti!”
“Lascia perdere... certamente la vita va avanti... però con Licia le rose erano poesia, mentre con questa sono come le salsicce, roba da mangiare.”
E poi traballo di palo in frasca. Torno indietro, controtempo, di poco, cioè a ieri notte, quando l'orologio, suppergiù, aveva la lancetta corta sghemba sulle 11, come il cappello sulle 23. Nel mezzo della finestra spalancata c'era la luna con la tangente di uno scampolo di nuvola. Senza muovermi ci ho fatto un balzo sopra. Il viaggio è durato un battito di palpebra perché è vicina, fuori porta. Lassù m'è apparsa una specie di dogana con le ultime stazioni della veglia e le prime del sonno, tra le quali quella dell'eterno riposo. Non mi è stato possibile procedere oltre il satellite, nell'oceano dell'ignoto, non è arrivata la mia ora e il passaggio definitivo mi fa paura. Sapevo quel pallore essere rovente e secco, ma per me andava bene avendo lasciato il corpo laggiù, in camera. Sapevo che quella luce silente era piena di sentimento, alimentato soprattutto dai poeti e dagli innamorati, che è tanto e trabocca formando l'alone. In questo vestibolo dell'eternità percepivo presenti, ma invisibili, assembramenti oceanici di spiriti umani e la solitudine abissale, nella quale credevo di trovarmi, non era inquietante, bensì gradita. Mi sentivo in una situazione di assenza, nel dormiveglia tra l'essere e il non essere, con gli occhi aperti pieni di nebbia. Quando ho intuito di trovarmi un salto fuori di me ho fatto con risolutezza un altro balzo. Sono tornato col terrore di venire catapultato nel cosmo perchè la luna, che sembra ferma o quasi, dicono gli astronomi, viaggia a 3600 km orari. Ma quanto è bella, magica, un mistero nell'universo dei misteri, da rispettare, non profanare con i piedi. E, insomma, porta male oltrepassare i limiti come insegna il folle volo di Icaro. Sarebbe meglio non disturbare la nostra dolce compagna della notte e lasciarla volare libera per “i sempiterni calli”.
E poi passo di palo in frasca. Ricordo quella volta che vidi, non so se in sogno, l'incontro di due cani di media taglia. Uno era bianco neve col corpo rasato a zero, ma con un ciuffo di riccioli sulla testa dove squillava il rosso di un fiocco. Aveva anche un ricco pompon al termine della coda nuda, che muoveva pavoneggiandosi.
L'altro era nero, a pelo lungo, sicuramente un bastardo, figlio d'occasione, uno di quei randagi che sono ormai rari perché la civiltà li perseguita, cattura, per nasconderli in moderni campi di concentramento.
Il bianco, certamente pieno di carezze e biscottini, mugolando con sussiego, pronunziò la sentenza:
“Siamo nel terzo millennio e ancora tu puzzi di cane!”
Il nero rispose:
“Preferisco la fame al blasone e alle coccole che ti fanno dopo averti ridotto come un bambolotto, dopo che ti hanno reso ridicolo e snatutrato con l'operazione. Preferisco l'odore vero al puzzo del profumo.”
La mente non si ferma. Quando sul suo schermo non passano le immagini e vi si stende una tabula rasa odo il ronzio dei corpi celesti che rotolano. Poi arrivano i pensieri perduti o lasciati da parte oppure quelli del tutto nuovi, imprevedibili. Se la facoltà della logica è momentaneamente sgangherata (un po' di pazzia non guasta) può arrivare una specie di trance e la vita non è male. Rivivo la lontananza dell'infanzia e mi ritrovo nell'aia dove gorgheggia la chioccia, mentre il gallo se ne frega e arieggia da padrone. Anatre, maiali, vitello sono una multietnica compagnia, tutti animali senza l'anima, quindi li mangiamo.
E ora arriva, non saprei dire se l'ho convocato, il vecchio cacciatore con i baffi alla Francesco Giuseppe. Sparò alla lepre, ma ammazzò il cane che la inseguiva. Per cui suo figlio sacramentò straziando parole e parolacce.
“Cani come quello non ce ne sono più al mondo... a 60 anni i vecchi devono fare i vecchi, non i cacciatori.”
Lui era zoppo e calvo. Mi sembrava peggio in arnese e più vecchio di suo padre.
Ed eccolo, di tanto in tanto rivedo, cioè ricordo Gingillo. Io però lo chiamavo Carlo. Ma chissà ora dov'è, chissà se vive. Quando ero sui 17 anni fu mio amico solo per il tempo di un'estate. Era un po' strano, anzi molto. Diceva bugie grosse come bombe. Diceva di essere nobile. Era figlio unico di madre nubile e padre vattelapesca. Sua madre, per tirare avanti, andava a servizio. E girava voce che lui fosse finocchio, nel migliore dei casi omosessuale, oggi gay. Era povero, ma con le bugie era stato ospite al Danieli di Venezia e se la spassava. Io sorridevo, lui qualche volta sorrideva.
Una sera un ragazzo, passando, gli tirò l'occhiolino. Ripassando insistette e io lo presi per lo stomaco. Quello mi stampò un pugno in un occhio al quale risposi con un palmino sulla fronte mandandolo a gambe per aria.
Il giorno dopo a mia madre che mi chiese ragione del vistoso ematoma raccontai l'accaduto e che avevo incontrato un cazzotto.
Da quella volta non ho mai più visto Carlo. Scomparve come neve al sole. Torna nella finzione
Franco Ruinetti