COMPLICE LA PRIMAVERA
Davo la colpa al Dewey quando saltavo la scuola, cosa che capitava con una certa frequenza. I prati, il biancospino, il cielo sereno erano invitanti. Avevo letto in una rivista (e mi aveva convinto) l'attivismo pedagogico, che considerai vita, non prigione.
Quella mattina fu la terza volta consecutiva che non mi inserii nel flusso degli altri ragazzi. Andai di nuovo controcorrente e, complice la primavera, spiccai il volo del salto in lungo. Superata la porta medioevale del paese, vidi una folla di persone formicolanti, un andirivieni e, da un platano all'altro, alto, teso sopra la strada, uno striscione rosso con la scritta in bianco, TRAGUARDO. Sull'asfalto avevano tracciato una grossa riga con la calce. Mi intrufolai tra quella gente. Appresi che stava per partire un'importante gara ciclistica, non so o non ricordo di quale categoria. Gli atleti dovevano ripetere tre volte un circuito intorno alla valle per un totale di oltre 100 km con quella salita che spacca in due un paese. E' così ripida che, dicono, anche le galline tirano i freni quando scendono e hanno il fiatone quando salgono.
Il termine della competizione era previsto per le 12,30, in perfetto accordo con la campanella di fine lezioni.
Mi passò per la mente che i corridori, con quelle magliette multicolori, luminose, fossero come fiori di un giardino animato.
I concorrenti erano numerosi. Ad alcuni, seduti nelle sedie del bar, massaggiavano le gambe. Altri se le massaggiavano da sé. Finché tre fischi secchi li chiamarono al via.
Io accettai al volo di salire sul sellino posteriore di una motocicletta. Mi dettero una bandierina rossa da sventolare il più spesso possibile. Per prima partì la macchina della giuria col direttore di gara, poi salpammo noi con la bandiera del pericolo, che si doveva precedere di una cinquantina di metri i ciclisti.
La gara si svolse con vari tentativi di fuga, finché due ragazzi presero il volo.
Quando furono a poche centinaia di metri dal traguardo caddero per evitare un cane in mezzo alla strada. Non aveva rispettato il mio sbandieramento del pericolo. Uno dei due era finito contro un paracarro e la sua bicicletta era inservibile.
"Vai, corri a vincere!"
"No, non è giusto!"
"Ti dico vai!"
"No."
Arrivarono al traguardo insieme, uno in sella, l'altro in canna della stessa bicicletta. Li accolse un tiepido battimani. Neanche il cronista col microfono aveva capito cosa fosse successo. La gara si concluse con due vincitori, cosa impossibile in questa disciplina.
Io rimasi colpito da tanta lezione di lealtà, altruismo. Due giovani, poco più grandi di me, che lottavano l'uno contro l'altro, avevano compiuto un'impresa al di sopra delle regole, esaltante, della quale non parlarono i giornali ed è rimasta nascosta dietro un angolo del tempo.
"Bella mattina, è meritato viverla", pensai, però, tornando a casa, con i libri sottobraccio, sentii il cuore pesante perché ero diventato un ladro di libertà. Ero un selvaggio perché amavo imboscarmi per evitare le fucilate degli sguardi e certe risatine di commiserazione.
Da allora smisi di andare a scuola, ma cominciai a studiare seriamente. Passai le ore, soprattutto notturne, nell'unico posto dove potevo isolarmi, nella fredda cantina, in compagnia di tutte le materie con la speranza di tagliare il traguardo insieme agli studenti normali che avevo abbandonato.
Certo: se potessi ora fare un balzo indietro nei decenni, andrei ad incontrare me stesso, quel ragazzo che ero, per tirargli le orecchie, tutte e due, pur rischiando che il ribaldo mi rispedisca nel presente con un calcio nel sedere.
Purtroppo una simile marcia indietro non esiste. Al suo posto c'è il pentimento che capita nelle radure della solitudine. E' fatto di nuvole nere, tristezza, brutto tempo.
Franco Ruinetti