giovedì 29 marzo 2018

In bicicletta: all'arrembaggio dell'adolescenza (by Franco Ruinetti)

 
Ho visto le mie vite precedenti in sogno. 
Pitagora le ricordava.

Ho fatto qualche conto per incasellare i ricordi nel tempo, il quale è un mascalzone perché toglie la giovinezza, di nascosto.

Ricordo: erano gli anni '50 e '51. La mia famiglia viveva col minimo indispensabile, doveva stare attenta per mettere d'accordo il pranzo con la cena, mentre il gatto, che dormiva con me, andava a mangiare all'albergo confinante. Saliva sul tetto e, tutti i giorni, un'anziana cameriera gli serviva un ricco cartoccio di avanzi sul davanzale di una finestra. 
Io avevo intorno ai 14 anni e una gran voglia di abbracciare la luce del mattino, i colori della primavera. Per me l'aula e il banco rappresentavano una condanna. Avanzavo pretesti per non andare a scuola. Però leggevo molto, ero un buon cliente della biblioteca. Così mi capitò di incontrare un libro di Alfredo Panzini con i racconti dei suoi viaggi in bicicletta. Tra l'altro lessi che lo scrittore, con un amico, arrivò anche al Borgo e mangiò proprio nel ristorante frequentato dal mio gatto. Quindi decisi di sistemare la vecchia bicicletta di mio padre, una Bianchi dei primi anni '20 con i freni a stecca e le cromature qua e là erose dalla ruggine. 
La pulii e, siccome ad ogni sobbalzo sollevava un brontolio di sonagli, tolsi gli accessori che mi sembravano inutili: parafanghi, carter, lume e relativa dinamo. Così era anche più leggera, quasi da corsa e mi sentivo emulo dell'intramontabile Bartali. M'avventurai, di volta in volta, alla conquista dei percorsi, delle località circostanti. Pedalavo in solitudine per fare il mio comodo, fermarmi quando mi pareva. Gareggiavo con me stesso, arrivavo sempre primo. Conobbi tutte le fonti, le sorgenti disseminate nelle campagne, nei pressi dei caseggiati, che mi chiamavano da lontano e offrivano freschezza.

Feci molti giri brevi, ma alcuni anche lunghi; apprendevo più dal vero che dai libri. A Fighille mi sorprese il pozzo in mezzo alla piazzola. Mi sembrò un campanile in scala ridotta. Compresi che era stato importante come l'aria per tanto tempo e tanta gente. A Monte Giovi ammirai, con gli occhi di Plinio il Giovane, l'anfiteatro della valle. A La Verna mi si stamparono nella mente le luci ora morbide, ora vive delle ceramiche, ma soprattutto sentii la presenza di Francesco, irraggiungibile, il più ricco di niente. Ad Arezzo m'intrattenni con Piero della Francesca, che avevo già conosciuto al Borgo, a Monterchi. E arrivai fino a Cortona, dove non sono più tornato e dove mi sorpresero le mummie egizie.

Ricordo bene: era un giorno di luglio del '51 quando, nell'ora canicolare, il solleone mi vinse. Mi trovavo nelle vicinanze di Pistrino, deposi la bicicletta nel fosso secco, m'inoltrai nel campo e mi stesi tutto lungo al riparo dal sole dietro un covone di grano, come ne “La siesta” di Van Gogh, che avevo visto su una copertina dal giornalaio. Mi venne in mente Fiorenzo Magni, che, per la terza volta, aveva vinto il giro d'Italia, mentre i grandi campioni si controllavano a vicenda. Ecco: allora decisi che avrei abbandonato l'amico mezzo di locomozione perché non accettavo l'umiliazione di essere superato dalle biciclette col “Campagnolo”. “Basta con le tappe”. Poi spensi gli occhi nel sonno e feci un sogno, l'unico che mi è rimasto acceso nella memoria. Tutti gli altri sono sempre subito svaniti. Precipitai nel tempo, mi comparvero, nello schermo del pensiero, in fila indiana, distanziate, alcune ombre dai profili incerti, che puntavano l'indice verso di me. Avvertii, in ciascuna di esse, la mia impronta. Poi si materializzò, perfettamente identificabile, un attore di antico teatro, che faceva le linguacce. Ero io. Mi mostrava, a mani levate, una maschera tragica ed una comica, che pure mi somigliavano come caricature di un bravo artista.

Ad un tratto mi girai su un fianco, ma le stoppie del “letto”, graffiandomi, mi svegliarono. Ebbi l'impressione di avere dormito a lungo, invece mi resi conto del contrario perché l'ombra del covone mi sembrava non si fosse mossa.

Il sogno m'ha fatto pensare. Esso “è l'infinita ombra del vero”, affermò Giovanni Pascoli. M'ha accompagnato, ho cercato di interpretarlo, L'ho tradotto in numeri per il lotto, dei quali non è uscito neanche il 47, che è il morto muto.

Ho considerato i fantasmi che incedevano nella nebbia come avi lontanissimi comparsi per salutarmi. Non altro. Invece l'attore avrebbe rappresentato i miei sbalzi di umore, infatti a me piace scherzare, ma spesso, all'improvviso, sono travolto dalla tristezza. Lo sberleffo poteva suggerirmi di prendere il mondo alla leggera. E il mio vecchio barbiere, che da un pezzo non c'è più (era un chiosatore ad alto livello), dopo avermi chiesto il giorno e mese di nascita, disse che l'attore aveva ragione perché quelli dei Gemelli sono incostanti e bifronti, cioè con una faccia davanti e una di dietro. Sentenziò che avevo sbagliato tutto, perché, con quella personalità, sarei stato perfetto se mi fossi dato alla politica.



Franco Ruinetti