mercoledì 18 marzo 2020

Rimbalzi della memoria (by Franco Ruinetti)

 

RIMBALZI DELLA MEMORIA



Il Monte in fiamme



Spettacolo bello e terribile. Era notte, la guerra si accaniva, dicevano che passava il fronte'. Io, ragazzetto, i miei genitori e diverse altre persone, sfollati in una casa nascosta nel bosco, tutti in piedi nell'aia, si assisteva al cannoneggiamento di Monte Santa Maria Tiberina che sorge, a forma di piramide, sul versante opposto della valle. Mi pareva di vedere un enorme pagliaio infuocato e ancora, dopo tanti decenni, ho davanti a me quelle lingue mobili ardenti che squarciano il blu della notte dilatandosi in un alone tra i sussulti delle esplosioni. Il cane guaiva, che mi pareva un pianto sommesso. Andai alla sua grotta scavata nel pagliaio dove era legato alla catena e mi sedetti accanto a lui che tremava e aveva il cuore impazzito. Il silenzio pesava come fosse di piombo e le persone presenti, che avevano disertato letti e giacigli, restavano immobili. Nessuno fiatava, ma ad un tratto, ricordo distintamente l'espressione di uno che chiamavano 'direttore': "Spettacolo bello e terribile: è un ossimoro."

Pensai che la parola da me sconosciuta, fosse un'imprecazione. Ma, molto tempo dopo, ripensandola capii che quella volta era stata pronunciata fuori luogo, forse per uno sfoggio di cultura.



A Gravina in Puglia



Nel '62, dopo aver superato un concorso, mi trasferii a Gravina in Puglia. La mia vicenda si svolse al contrario: mentre il flusso migratorio in cerca di lavoro aveva per destinazione il nord, io andai nel meridione. Quella città mi apparve giovane, cullata in uno sfarzo di luce, con i carri trainati dai ciucci, con strade e piazze vive per quei ragazzini liberi, sciolti, per l'azzurro gremito di rondini e falchetti. Abitavo in due stanzette all'ultimo piano. Di fronte alla finestra di camera s'ergeva impettito il campanile del duomo col suo grande orologio, occhio del tempo. Non avevo bisogno della sveglia. La porta-finestra dell'altra stanza si apriva sulla terrazza confinante con un'altra terrazza dove, spesso, soprattutto di notte, seduto su uno sgabello, fumava il sigaro o la pipa il pensionato Ruggiero (con o senza la i, inutile vexata quaestio), che sua moglie sfrattava dalla camera perché con quell'odore o puzzo non poteva dormire.

Io saltavo il muretto che divideva le terrazze e andavo a sedermi di fronte a lui.

"Una di queste notti, mi disse, andiamo a trovare un amico."

Dialogavo volentieri con Ruggiero che, pur essendo gravinese 'purosangue' con me parlava la lingua 'sciacquata in Arno'.

"Sarà amico tuo, io non lo conosco."

"Sarebbe amico di tutti ma nessuno lo va a trovare. Solamente io, ogni tanto, gli faccio un pò di compagnia".

Quella volta, erano già le dieci della sera, mi disse:

"Andiamo."

"Adesso! risposi, questa non è l'ora per fare visita ad una persona."

"Non ti preoccupare, per lui non c'è confine tra notte e giorno."

Ci ritrovammo nella strada, spingemmo a mano, fuori dal fondo, la vecchia Topolino, che gracchiò a lungo quando la mise in moto.

"Si potrebbe andare a fari spenti."

Infatti la luna stendeva la sua luce vivida sulle Murge deserte.

"Sembra d'essere soli al mondo!"

Percorsa una decina di chilometri lasciammo la strada asfaltata per imboccare una carrareccia sconnessa. Ci fermammo davanti ad una costruzione bassa, col tetto a capanna, nella quale abitava lo 'zio Delio', che era un uomo dall'età di mezzo e di media statura.

"Finalmente ti rivedo, chi hai portato?"

"E' un amico, abita da poco tempo vicino a me, viene da lontano."

Ci fece sedere attorno ad un tavolo, ci offrì more nere di gelso, olive, noci, poi cominciò a parlare di sé perché voleva dirmi chi era. Si alzò, prese da una mensola un fiasco di vino e dei bicchieri.

"Servitevi."

Alla fioca luce della lampada nuda, senza piatto di smalto o paralume, vidi che aveva un occhio rosso. La pupilla azzurra affogava nel fuoco.

"Sono un libro aperto, disse rivolgendosi a Ruggiero, così il tuo amico sarà libero di rimanere o di andarsene. Ma se rimarrà e tornerà mi farà piacere."

E quel libro raccontò la storia bella di un amore che è dono di Dio, triste perché quel sentimento era stato offeso, umiliato e perché la morte glielo aveva strappato, ma non cancellato. Parlava e gli scivolavano lacrime mute dall'occhio sereno e da quello infiammato. Ricordò l'imperatore Adriano e Antinoo, un pomodoro che una mano anonima gli scagliò in faccia, le derisioni, gli scherni. Parlò, parlò sempre a testa bassa e quando lo salutammo, a notte fonda, io ero diverso perché capii che l'amore non ha confini, è assoluto, non sezionabile in categorie. Pensai che condannare un omosessuale è come ostracizzare qualcuno per il solo fatto che parla un'altra lingua.

Quando stavo per salire in macchina, colpito da improvviso affetto, tornai indietro, abbracciai e baciai lo zio Delio promettendogli che sarei tornato a trovarlo.

Ma non l'ho più rivisto perché lasciai la Murgia luminosa per approdare al settentrione in un paese sul lago di Garda.





All'epoca di Lascia o raddoppia?



Nell'arco di poco tempo l'avvento della TV aveva fatto cambiare le abitudini delle genti. In special modo, il giovedì sera, le strade e le piazze del paese, anche nella bella stagione, erano deserte a tutto vantaggio dei bar e di qualche circolo per tesserati che avevano istallato questo apparecchio. Il giorno in mezzo alla settimana era diventato più importante e atteso delle feste e Mike Bongiorno aveva l'aureola del semidio venuto dall'America. Io, che allora avevo appena cominciato a radermi la peluria sulle gote, soffrendo un poco di claustrofobia, entravo di rado nella sala affollata. Una sera, mentre ero seduto fuori dal locale e fumavo la sigaretta del dopocena, arrivò col suo lento dondolio Pietro Sordo e si accomodò vicino a me.

"Che fai, non entri?"

"E'? Che hai detto?"

Gli avevo parlato senza guardarlo, così che non poteva leggere le parole sulle labbra. Gli ripetei la domanda.

"C'è troppa gente, rispose. Poi non sento e non mi diverto."

E capitò 'Zucco', più o meno mio coetaneo, che, di recente, aveva ereditato villa, case, fattoria. Correva voce che non fosse un'aquila, che era avaro, ma anche scialacquatore. Alcuni dicevano che suo padre era morto di crepacuore per il figlio sconsiderato, altri sapevano che era schiattato durante l'ultima battaglia d'amore con una bionda di facili costumi, strepitosamente bella.

"Guarda chi si rivede! Dove sei stato per tanto tempo?

"A caccia, sono qui e pago da bere."

Aveva la statura di un orso e la voce di un pulcino.

"Sbaglia chi non crede nei miracoli!"

"Hai ammazzato un elefante?"

"Tu non entri, gli domandai, a vedere Lascia o raddoppia?"

"No, rispose, perché le interrogazioni non mi piacciono, smisi apposta di andare a scuola."

Pietro Sordo ordinò tre bicchieri di albana e i biscotti cantucci

"Morti di fame, pigolò Zucco, volete anche la pastasciutta?"

"Bravo Pietro, dissi, così si fa la zuppa, non capita spesso."

L'ereditiero cominciò a parlare. Non si poteva interromperlo, come il prete alla predica. Ricordo alcune teorie: i professi, cioè preti, frati, monache, vivono contro natura perché la castità imposta non è virtù, ma castigo, ergastolo sessuale, martirio. Poi, senza soluzione di continuità rivelò che aveva inventato delle molle da inserire nei tacchi delle scarpe per camminare e correre agili. Sostenne, inoltre che andava cambiato l'ordine negli indirizzi sulle buste: prima la città, poi la via, infine cognome e nome.

Il vino e i biscotti finirono presto, il monologo no, continuò indefesso fino a quando una fiumana di gente uscì fragorosa dal locale e anche noi, con i saluti, chiudemmo all'ultima ora le porte di quella giornata.



La Liana



In fondo al viale, un poco ostacolata dalla siepe di bosso, la intravvidi, alta, come un'apparizione nella lontananza del ricordo. Avanzava lenta. La guardavo attento dalla mia postazione di avvistamento, che era la sedia fuori dal bar. Man mano che procedeva, pur essendo ancora lontana, la sua figura acquistava certezza. Mi sembrava proprio lei, la Liana, che era scomparsa da vent'anni, forse di più. Quando eravamo adolescenti ci avevo trascorso qualche pomeriggio assieme, nel salotto di casa sua per studiare Croce, Gentile fino al Superuomo di Nietzsche. Come era bella! M'aveva scaldato il cuore e il candore lunare del suo volto, incorniciato dall'alone biondo della chioma, mi era albeggiato con una certa insistenza nella mente. Ma non altro. Perché, secondo me, apparteneva ad un pianeta diverso dal mio.

Era lei, era lei, la Liana. Allora mi alzai e le andai incontro. Il biondo dei capelli, evidentemente, non era più il suo, però mi appariva ancora, come un'aureola d'oro.

Accennò un sorriso, mentre continuava a camminare sospingendo il deambulatore. Ci scambiammo due baci a fior di guance, quindi ci allontanammo, io da una parte, lei dall'altra. In un silenzio che diceva tutto.


Franco Ruinetti