Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma sembra ieri. Così si dice, con
frasi fatte, quando si ricorda il passato più o meno remoto e si riaccende con
la luce viva della mente. Esso balza al presente da sé, talvolta col fiore del
sorriso.
Durante le vacanze dell'estate, spesso, di mattina andavo a fare il bagno
nel torrente Afra, al Gorgo del Ciliegio, frequentato da quelli come me che non
potevano andare a Rimini o Cattolica. S'era sempre in molti, 15 o 20. Si
lasciavano le biciclette poco lontano, appoggiate ad un greppo e non ne è mai
mancata una. Ci si tuffava dallo scoglio della cascatella, non c'era alcun
pericolo, tra il chiasso, gli schizzi, senza pensieri. Eravamo ragazzi per lo
più della Scuola media o dell'Avviamento. Tutti maschi, con un'eccezione, che
era la Teresina. Io ero ubriaco di libertà per le mie prime uscite da solo e
con la bicicletta. Mi accompagnavano le raccomandazioni di mia made, che
insisteva per darmi il sapone, ma non lo volevo perché non potevo usarlo, in
quanto il figlio del farmacista, robusto e ringhioso, ne impediva l'uso. Diceva
che il gorgo non era la bagnarola e ci dovevamo lavare nella vasca di casa, come
se ce l'avessimo tutti. All'epoca, infatti, in paese, il gabinetto, che in
genere serviva a più famiglie, era dotato della sola tazza. Seppi poi che si
chiamava water.
Per me, quelle, erano mattine speciali. Venivano da sole come le altre, non
avevano prezzo. Io ero pieno di salute e tutto questo non sapevo, mentre ero
contento dalla testa ai piedi. Qualche volta stavo in acqua poco tempo, poi mi
sedevo all'ombra su un lastrone levigato dalla corrente a guardare
gli altri. Le cicale intonavano un concerto infinito. In realtà ero interessato
solo alla Teresina, che poteva avere circa la mia età, 12 o 13 anni. Era una
visione. Mentre alle sue amiche (segretamente nemiche) appariva indecente, una
vergogna. Le avevo sentite criticarla mentre, di sera, passeggiavano per il
corso. Ma forse avevano ragione perché a quell'epoca, ancora, stagnavano in
provincia i fumi del Concilio di Trento.
Quando lei arrivava si arrampicava sulla roccia più alta, chiedeva spazio:
“Largo, largo” e si tuffava da dove nessuno osava. Io la vedevo come una
freccia del cielo, una rondine in picchiata. Anzi, molto di più. Aveva i
capelli corvini, corti, riccioli, non le si appiccicavano alla testa
riemergendo a galla. La modellava un costume nero, di un solo pezzo, come
allora usava. Era la creatura più bella che avessi mai visto e che potessi
immaginare. Saettando nell'aria, tutta bagnata, il sole le rimbalzava addosso e
una volta pensai che fosse un angelo moretto, nudo come gli altri, uscito dalla
pala dell'altare maggiore della chiesa di San Martino, sempre aperta e distante
appena 100 metri in linea d'aria. Era luce soltanto e mi svegliava un piacere
puro, non altro, come quando vedevo l'infiorescenza del biancospino o il
sorriso di mia madre raramente serena.
Un giorno la Teresina ripeté il suo volo quattro o cinque volte. “Largo,
largo”. Chiedeva spazio. Finché il figlio del farmacista, spazientito, disse
che il gorgo non era proprietà privata, quindi si mise a starnazzare e poi a
fare il morto in mezzo allo specchio dell'acqua.
Eravamo, ormai, verso la fine delle vacanze estive, venne un temporale, la
cascatella del Ciliegio vomitò acqua torbida e, per me, la Teresina divenne un
ricordo sempre più lontano, all'orizzonte della mente.
Ma tanto tempo dopo, erano addirittura trascorsi una quarantina di anni, la
rividi. Feci fatica a riconoscerla, me la ricordarono quei capelli corti,
ricci, sempre corvini, con l'albeggiare del rosso, tinti, come fanno quasi
tutte, per ingannare l'età. Faceva il mio stesso lavoro, ma io ero rimasto in
platea, mentre lei era sul palco, al centro del tavolo e fui rassicurato sulla
sua identità dalla targa dichiarante il cognome, il titolo, il nome. Mentre
parlava mi spostai in prima fila per osservare da vicino l'angelo in carriera,
volato in alto fino alla dirigenza. La guardavo fissamente, le sue parole mi
scivolavano addosso, non le sentivo. La somiglianza con la ragazza che
ricordavo era molto sfocata. Portava degli anelli alle dita, anche vistosi, ma
non all'anulare sinistro. Argomentai che gli angeli non si sposano, non abbiamo
la certezza del loro sesso, anche se i pittori, per raccontarli al popolo, gli
fanno il pistolino.
Sì: ogni tanto applaudivo all'unisono, non sapevo perché, solo per far
parte del coro. La guardavo, riflettevo con riposata rassegnazione: “Siamo
diventati vecchi e, prossimi alla pensione, ci incammineremo poi sulla strada
del tramonto. Spero che il nostro paradiso, se ce lo meriteremo, sarà lassù, al
Gorgo del Ciliegio.”
Franco Ruinetti