Le sue parole avevano la calamita.
Correva il mese di luglio e il mondo era ancora
giovane, ma già sui tetti delle case si potevano vedere i primi rami secchi
delle televisioni.
Io e un gruppetto di amici, tutti del Borgo, senza che ci
dessimo appuntamento, ci si incontrava dopo cena al bar di Menchino, quattro
passi fuori Porta Fiorentina.
Eravamo sette o otto, di cui tre ragazze, seduti
intorno ad un tavolino all'aperto, sotto le grandi braccia di un cedro del
Libano, all'ombra della luna. Si viaggiava dai 17 ai 19 anni. Io ordinavo un
caffè oppure un cono con tre palline di gelato. Capitava che di domenica
offrisse le consumazioni lo “Zuccone”, figlio del più ricco del paese, che si
era fermato alla seconda della Scuola media e si vantava d'essere istruito q.
b.
Ogni tanto faceva sfoggio di cultura: “Se pecunia deriva da pecora, io ho al
pascolo un discreto gregge.”
Per fare bella figura con le ragazze, con gesto
lento, lasciava la mancia.
Si parlava del più e del meno, si scherzava, io
guardavo lei e, talvolta, timidamente, lei guardava me. M'ero invaghito.
Pensavo alla sua bocca e a quei capelli biondi. Nell'antologia avevo cambiato
col suo nome “Rosita” il titolo della poesia lampo di Ungaretti che recita
“M'illumino d'immenso”.
Ma quando partecipava l'Oriundo il conversare non era
allegro e io ero insofferente, però gli altri pendevano da lui, che teneva
banco.
Gravitava intorno ai trenta anni, aveva il fascino della parola, della
persona colta amica di Nietzsche, dello straniero immigrato di recente da
Castelfiorentino.
Sembrava che le sue parole fossero magnetiche, assorbivano
l'attenzione.
Comunque ero convinto fosse un recitatore di coglionerie, ma
quando mancava l'attesa era densa e il vuoto pesava. Una ragazza sentenziò che
non lo si poteva definire un Adone, né un Mastroianni, però lo classificò
interessante, col carisma.
Accompagnava la voce muovendo il braccio destro come
un direttore d'orchestra, ora strizzava le palpebre aggrottando la fronte per
scrutare lontano, altra volta spalancava gli occhi come sbadigliassero.
Ricordo che in uno dei suoi monologhi sostenne che la
vita è piena di morte, ognuno di noi si porta dentro i giorni trapassati, un
cimitero di tombe, che crescono fino all'eternità. Per me scopriva l'acqua
calda in quelle notti della bella estate.
E io, per il quieto vivere, avevo
imparato a tacere da quando m'apostrofò giudicando certe mie battute scherzose
come il sale degli sciocchi. Disse anche che, onde perfezionare la capacità di
concentrazione, era stato a meditare di notte nel cimitero campestre di San
Martino dell'Afra per veleggiare nel silenzio dei morti.
Erano cazzate, ma
dette in quel modo, a quell'uditorio, facevano effetto. Una sera, dopo essersi
ermeticamente chiuso in se stesso per due o tre minuti mi chiese la mano
sinistra e vi lesse che cercavo un raggio di sole.
Alla Rosita pronosticò il
matrimonio imminente con un nullafacente.
L'estate finì presto e la nostra compagnia, che si
riuniva all'ombra della luna, si sciolse.
Io avevo incontrato qualche volta la
Rosita, ma presto scomparve. A mezzo autunno seppi che era rimasta incinta
dell'Oriundo, che, di certo, s'era molto concentrato. A me dispiacque e cercai
subito una consolazione bionda perché ero triste col cuore disoccupato.
Trovai
il mio raggio di sole tra grandine e temporali. Alla poesia di Ungaretti
ripristinai il titolo definitivo: “Cielo e mare”. Di quei due non ho più saputo
niente. Si sono perduti nei sentieri del tempo.
Franco Ruinetti