martedì 1 maggio 2018

L'oriundo (by Franco Ruinetti)

 

Le sue parole avevano la calamita.

Correva il mese di luglio e il mondo era ancora giovane, ma già sui tetti delle case si potevano vedere i primi rami secchi delle televisioni. 
Io e un gruppetto di amici, tutti del Borgo, senza che ci dessimo appuntamento, ci si incontrava dopo cena al bar di Menchino, quattro passi fuori Porta Fiorentina. 
Eravamo sette o otto, di cui tre ragazze, seduti intorno ad un tavolino all'aperto, sotto le grandi braccia di un cedro del Libano, all'ombra della luna. Si viaggiava dai 17 ai 19 anni. Io ordinavo un caffè oppure un cono con tre palline di gelato. Capitava che di domenica offrisse le consumazioni lo “Zuccone”, figlio del più ricco del paese, che si era fermato alla seconda della Scuola media e si vantava d'essere istruito q. b. 
Ogni tanto faceva sfoggio di cultura: “Se pecunia deriva da pecora, io ho al pascolo un discreto gregge.” 
Per fare bella figura con le ragazze, con gesto lento, lasciava la mancia.

Si parlava del più e del meno, si scherzava, io guardavo lei e, talvolta, timidamente, lei guardava me. M'ero invaghito. Pensavo alla sua bocca e a quei capelli biondi. Nell'antologia avevo cambiato col suo nome “Rosita” il titolo della poesia lampo di Ungaretti che recita “M'illumino d'immenso”.

Ma quando partecipava l'Oriundo il conversare non era allegro e io ero insofferente, però gli altri pendevano da lui, che teneva banco. 
Gravitava intorno ai trenta anni, aveva il fascino della parola, della persona colta amica di Nietzsche, dello straniero immigrato di recente da Castelfiorentino. 
Sembrava che le sue parole fossero magnetiche, assorbivano l'attenzione. 
Comunque ero convinto fosse un recitatore di coglionerie, ma quando mancava l'attesa era densa e il vuoto pesava. Una ragazza sentenziò che non lo si poteva definire un Adone, né un Mastroianni, però lo classificò interessante, col carisma. 


Accompagnava la voce muovendo il braccio destro come un direttore d'orchestra, ora strizzava le palpebre aggrottando la fronte per scrutare lontano, altra volta spalancava gli occhi come sbadigliassero.

Ricordo che in uno dei suoi monologhi sostenne che la vita è piena di morte, ognuno di noi si porta dentro i giorni trapassati, un cimitero di tombe, che crescono fino all'eternità. Per me scopriva l'acqua calda in quelle notti della bella estate. 
E io, per il quieto vivere, avevo imparato a tacere da quando m'apostrofò giudicando certe mie battute scherzose come il sale degli sciocchi. Disse anche che, onde perfezionare la capacità di concentrazione, era stato a meditare di notte nel cimitero campestre di San Martino dell'Afra per veleggiare nel silenzio dei morti. 
Erano cazzate, ma dette in quel modo, a quell'uditorio, facevano effetto. Una sera, dopo essersi ermeticamente chiuso in se stesso per due o tre minuti mi chiese la mano sinistra e vi lesse che cercavo un raggio di sole. 
Alla Rosita pronosticò il matrimonio imminente con un nullafacente.

L'estate finì presto e la nostra compagnia, che si riuniva all'ombra della luna, si sciolse. 
Io avevo incontrato qualche volta la Rosita, ma presto scomparve. A mezzo autunno seppi che era rimasta incinta dell'Oriundo, che, di certo, s'era molto concentrato. A me dispiacque e cercai subito una consolazione bionda perché ero triste col cuore disoccupato. 
Trovai il mio raggio di sole tra grandine e temporali. Alla poesia di Ungaretti ripristinai il titolo definitivo: “Cielo e mare”. Di quei due non ho più saputo niente. Si sono perduti nei sentieri del tempo.

Franco Ruinetti