martedì 15 dicembre 2020

Lo spuntino (by Franco Ruinetti)

 

LO SPUNTINO

"Vieni, insistette Gigino. Almeno una volta vieni, tu lo conosci bene, si sta in compagnia, chiede di te, si mangia cacciagione..."

Conoscevo il "Duca" perché avevamo trascorso insieme tre giorni in una caserma di Firenze per le selezioni militari e, dopo un bel po', ci avevo litigato per la precedenza ad un incrocio. Quindi non lo rividi, ma sapevo che aveva preso a braccetto la fortuna, che era diventato molto benestante e che lo chiamavano con quel gran nome.

Non ero entusiasta perché a me i ricchi di qualsiasi specie, cioè ereditieri, capitani di industrie eccetera non sono simpatici, credono di avere sempre ragione, così come non mi sono mai piaciuti i più forti e prepotenti, tanto che, da ragazzo delle elementari, quando, dopo la scuola si accendevano delle baruffe, io mi buttavo dentro in soccorso della parte debole. Comprai due fiaschi impagliati di aleatico da un vignaiolo e mi presentai con quel contributo allo "spuntino di mezzanotte."

La villa signoreggiava alta sulla costa del monte, con un panorama sulla valle a perdita d'occhio.

Mi aprì lui:

"Bravo, finalmente... sei l'ultimo."

Notai che si era appesantito, la luce gli batteva sulla testa calva dalla cui nuca calava sul collo il codino pepe e sale stretto da un elastico.

Contai i presenti sull'attenti alle loro postazioni intorno al gran tavolo imbandito.

Tutti uomini, alcuni li conoscevo.

Gigino mi salutò agitando la mano.

Misi l'aleatico sul tavolo, un fiasco qui, in compagnia di alcune bottiglie, un fiasco là.

"Sedete, vi prego, vado a prendere gli antipasti, intanto servitevi da soli il vino."

Tornò con due grandi vassoi, uno in ogni mano, abile come un cameriere navigato.

E, dopo gli antipasti, un catino di primi, poi i secondi e così via, tutto a base di cacciagione, volatili in compagnia del cinghiale e del capriolo. Buono ogni pezzo, non c'è che dire. Io tacevo e mangiavo. Mangiavo e mi mescevo il mio aleatico, che riscuoteva successo. Ascoltavo e sentivo parlare soprattutto il mio vicino, che si era presentato come professore laico, senza laurea, né cattedra.

"Il tempo è una realtà che non c'è (e giù un sorso di vino). Noi ci consumiamo come tutto il resto, ci spalmiamo nel tempo, che è solo una nostra invenzione... " (e giù un altro sorso).

Per me poteva predicare a volontà. Facevo finta di essere attento. Ogni tanto dicevo "Sì."

Tutti parlavano tra loro. Vedevo tante parole scompigliate annaspare nel fumo denso delle sigarette.

Ad un tratto prese a parlare il Duca e la sua voce veleggiava libera nel silenzio che si era subito stabilito in segno di rispetto (devozione?).

Portò a conoscenza dei convitati, con pronuncia ispirata, che gli elaborati culinari erano realizzati dalla moglie e dalla figlia, le quali desideravano restare in incognito, ma quei piatti avevano il suo personale sigillo, in quanto si era promosso capo chef e in quanto aveva procurato la selvaggina. Allora mise in tavola le proprie doti di grande cacciatore. L'uditorio pendeva dalle sue labbra. Io ero profano in materia, insomma, cominciava a sensibilizzarmi. Parlò di folaghe, moriglioni, mestoloni, alzavole, germani, ma mi suscitò più interesse la caccia in botte alle anatre nel delta del Po. Raccontò che era più volte andato a sparare oltre il circolo polare artico. Stendeva le braccia, faceva il gancio con l'indice e 'tapum, olè.' Diventò poetico riferendo uno scorcio naturalistico. In quei climi matti aveva visto cambiare il paesaggio, esplodere la primavera in un batter d'occhio.

"Vai lassù anche a caccia di donne?"

"No, sono fedele... ogni tanto" aggiunse a bassa voce.

Risa, applausi; uno, a bocca piena, sbatté le mani sul tavolo.

"Fiorin fiorello

l'amore è bello..."

"Fiorin fiorello...

mi fa sognare

mi fa tremare..."

Quindi ricordò la caccia grossa in Africa cadenzando la voce in sordina e al rallentatore, rapito, estasiato: "tapum", gancio dell'indice, "Olé", applausi. "Ci tornerò, lo prometto."

Devo riconoscere, però, che mi sembrò modesto. Non disse di evere ucciso un dinosauro e di averci fatto lo spezzatino.

Tacque.

Tutti mangiavano, bevevano, fumavano. Ma l'intervallo durò poco. Ad un tratto il Duca alzò di scatto la testa dal piatto e mi guardò diritto:

"Ti ricordi?"

"Mi ricordo."

"Sono trascorsi trent'anni, è passata tanta acqua sotto il Ponte Vecchio dove s'andò a passeggio."

"A quel tempo anche te avevi le tasche vuote."

"E' vero, ma già da allora avevo la testa in fermento... poi ci siamo rincontrati a quell'incrocio dove per poco non si fece l'incidente per colpa tua..."

"Mi sembra ieri, ripresi, ma la colpa era tua..."

"Non voglio litigare di nuovo."

"Neanche io e, al proposito, mi viene in mente Lodovico de I promessi sposi che, per un motivo di precedenza, ammazzò il nobile..."

"Ma che cianci!? Questo qui non lo conosce nessuno."

"Io sì, intervenne il professore laico, ho letto e riletto quel libro."

"Ah! rispose il padrone di casa. Io non amo né certi libri, né certi professori. La scuola mi bocciò, la vita mi ha riscattato."

I discorsi e gli scontri continuarono, ma diventavano fumiganti perché i fiaschi e gran parte delle bottiglie erano stati scolati.

Mi scappò una citazione purtroppo offensiva e meno male che in tal senso non fu recepita:

"ah, intendo, il suo cervel, Dio lo riposi..."

"Il mio cervello non ha mai riposato, tienilo bene a mente."

Poi cambiò vento. Gigino intavolò il discorso sul campionato di calcio, mentre lo spuntino trimalcionico volgeva stancamente al termine.

Quando uscii albeggiava. Il cielo all'orizzonte presentava una lieve carezza di rosa pallido. Respirai a pieni polmoni e un po' brancolavo, ma mi sentivo di guidare la macchina.

Non ho più rivisto il Duca, che è volato sempre più in alto con la sua azienda. Lo incontrerei volentieri, però solo per un caffè. Quella gran cena fuori orario fu ottima, ma io preferisco due fette di bruschetta in compagnia dei miei desideri da sempre inseguiti e incompiuti.

Franco Ruinetti