giovedì 20 novembre 2014

Volpi visto da Ruinetti

Volpi al lavoro visto da Matteo Doardo
Nel catalogo del concorso di pittura 2014 abbiamo dedicato uno spazio all'artista tifernate Filippo Volpi che piu' volte in passato ha collaborato con la nostra associazione e che nel 2012 ha scolpito il Premio San Michele che riproduce su pietra il dipinto del Guido Reni.
Riportiamo ora un testo critico realizzato dal prof. Franco Ruinetti, direttore onorario del piccolomuseo di Fighille, e dedicato alle opere di Volpi:


Filippo Volpi

Filippo Volpi, con le sue molteplici realizzazioni plastiche, ora di dimensioni contenute, ora di grandezza naturale e oltre, si esprime con la chiarezza del linguaggio figurativo, ma l'apparenza, cioè l'aspetto mimetico e la leggibilità dei soggetti non sono vincoli né ostacoli. Il giovane artista si avvale di materiale vario, per ora prevalgono i legni, la pietra serena, il marmo. Pare di sentire gli scalpelli e le sgorbie, durante la lavorazione, che fanno volare note musicali al fine di accendere la vita dell'arte nella base inerte. Il suo intento è quello, sgrossando la materia, di togliere il superfluo per evidenziare il significato. All'autore non interessa il tutto compiuto della figura umana, che privilegia quale argomento d'interesse e d'indagine. Ecco, ad esempio, un nudo. Si tratta soltanto di un busto umano, che si muove in una lieve torsione, non ha la testa, né le braccia, né le gambe. Trasmette una forte emozione, ma non perché è così mutilato. Esso viene incontro a chi lo incontra. Sorprende e lascia un'impronta nella memoria anche per quelle linee incise sul collo, sul petto che contrastano eppure armonizzano con l'insieme di questo suggestivo “non finito” così definito e completo.

Talvolta le superfici dei lavori sono levigate, altra volta presentano delle irregolarità, come dei fremiti o turbolenze, mentre si possono pure vedere degli inserti eterogenei. Il tutto perché l'essenzialità della sintesi è sempre tesa ad enucleare i motivi dell'ispirazione e non ha importanza l'identità, né se qualche parte risulta mancante, rotta dal tempo o erosa e in esso dispersa. In effetti certi tronchi di statue hanno un fascino che viene da lontano, possono apparire come reperti classici usciti dai secoli e dalla dimenticanza.

Tali sculture sono vive perché la luce trascorre e penetra come un respiro lento, vibra nelle matasse dei segni, dilegua nelle ombra delle rotondità.



Ma è meglio non allontanarsi dalla produzione per comprendere ciò che dice l'arte di Filippo Volpi. Allora vediamo due forme umane, sono sagome appena abbozzate o sbozzate, congiunte, nate da un unico blocco di pietra serena. Presentano le nudità forti, ma così dolci, della roccia nuda. Attraggono ed è facile stabiliscano un rapporto sotterraneo con chi si ferma a loro davanti. Certamente a ciascuno svegliano pensieri ed emozioni diversi. Il titolo è però indicativo: “Sotto la luna”. Si può credere che i due siano un inno di movenze e di luce all'amore (il suo archetipo) che si nutre della bellezza e veleggia al di sopra dei rumori mondani.

“La Medusa” (pioppo, cm. 25X80) è intesa e realizzata in modo nuovo. Il più antico racconto mitologico la definisce orrenda, un altro, molto posteriore la vede bellissima. L'autore sembra la colga nel passaggio, nel processo di trasformazione dall'uno all'altro estremo, mantenendo così accennati i caratteri di entrambe le versioni. Anche questa è un'opera che dimostra originalità e preparazione.  Le sculture, nella maggior parte dei casi a tutto tondo, sono frutto di evoluta sicurezza esecutiva e di certo non distraggono l'attenzione fermandola su particolari o  virtuosismi.

Per alcuni motivi (due figure liberate in un solo blocco di pietra serena, le dimensioni, la mancanza dei volti) “La Pietà” è somigliante a “Sotto la luna”. Certamente e in prima istanza il riferimento è alla Madonna e al Cristo, però quelle teste che non hanno i visi nascondono in verità i visi di tutte le madri e di quei figli che hanno combattuto con le malattie o attraversato l'inferno della droga.

E c'è una statua, come un monumento in scala ridotta (cm. 35X80), dal titolo “Schiavo in catene”. Racconta il tronco possente  di un uomo in parte efficacemente scolpito nel rispetto dell'anatomia, in parte ancora dentro la pietra informe. Non ha la testa, non ha la parola. E' prigioniero della materia e del ferro, come molti di noi.

Tutte le realizzazioni plastiche di Filippo Volpi sono subito comprensibili, anche se appaiono più o meno lontane dai modelli e dal vero.

I motivi considerati, infatti, rispondono ai ritmi interiori, allo stile dell'autore e l'arte sta proprio in questa “deformazione”, come asseriva Matteo Marangoni. Perché l'artista è libero, sempre. Anche di mostrare certi ingranaggi del cervello, come nella scultura in pietra serena che è “L'uomo macchina” oppure di corredare la testa e il volto, belli che sembra vengano dall'antica Grecia, dal titolo “Crescere”, con listelli di marmo luminoso quanto insidioso.

                                                                                     Franco Ruinetti