Volpi al lavoro visto da Matteo Doardo |
Nel catalogo del concorso di pittura 2014 abbiamo dedicato uno spazio all'artista tifernate Filippo Volpi che piu' volte in passato ha collaborato con la nostra associazione e che nel 2012 ha scolpito il Premio San Michele che riproduce su pietra il dipinto del Guido Reni.
Riportiamo ora un testo critico realizzato dal prof. Franco Ruinetti, direttore onorario del piccolomuseo di Fighille, e dedicato alle opere di Volpi:
Filippo Volpi
Filippo Volpi, con le
sue molteplici realizzazioni plastiche, ora di dimensioni contenute, ora di
grandezza naturale e oltre, si esprime con la chiarezza del linguaggio figurativo,
ma l'apparenza, cioè l'aspetto mimetico e la leggibilità dei soggetti non sono
vincoli né ostacoli. Il giovane artista si avvale di materiale vario, per ora
prevalgono i legni, la pietra serena, il marmo. Pare di sentire gli scalpelli e
le sgorbie, durante la lavorazione, che fanno volare note musicali al fine di
accendere la vita dell'arte nella base inerte. Il suo intento è quello,
sgrossando la materia, di togliere il superfluo per evidenziare il significato.
All'autore non interessa il tutto compiuto della figura umana, che privilegia
quale argomento d'interesse e d'indagine. Ecco, ad esempio, un nudo. Si tratta
soltanto di un busto umano, che si muove in una lieve torsione, non ha la
testa, né le braccia, né le gambe. Trasmette una forte emozione, ma non perché
è così mutilato. Esso viene incontro a chi lo incontra. Sorprende e lascia
un'impronta nella memoria anche per quelle linee incise sul collo, sul petto
che contrastano eppure armonizzano con l'insieme di questo suggestivo “non
finito” così definito e completo.
Talvolta le superfici
dei lavori sono levigate, altra volta presentano delle irregolarità, come dei
fremiti o turbolenze, mentre si possono pure vedere degli inserti eterogenei.
Il tutto perché l'essenzialità della sintesi è sempre tesa ad enucleare i
motivi dell'ispirazione e non ha importanza l'identità, né se qualche parte
risulta mancante, rotta dal tempo o erosa e in esso dispersa. In effetti certi
tronchi di statue hanno un fascino che viene da lontano, possono apparire come
reperti classici usciti dai secoli e dalla dimenticanza.
Tali sculture sono
vive perché la luce trascorre e penetra come un respiro lento, vibra nelle
matasse dei segni, dilegua nelle ombra delle rotondità.
Ma è meglio non
allontanarsi dalla produzione per comprendere ciò che dice l'arte di Filippo
Volpi. Allora vediamo due forme umane, sono sagome appena abbozzate o sbozzate,
congiunte, nate da un unico blocco di pietra serena. Presentano le nudità
forti, ma così dolci, della roccia nuda. Attraggono ed è facile stabiliscano un
rapporto sotterraneo con chi si ferma a loro davanti. Certamente a ciascuno
svegliano pensieri ed emozioni diversi. Il titolo è però indicativo: “Sotto la
luna”. Si può credere che i due siano un inno di movenze e di luce all'amore
(il suo archetipo) che si nutre della bellezza e veleggia al di sopra dei
rumori mondani.
“La Medusa” (pioppo,
cm. 25X80) è intesa e realizzata in modo nuovo. Il più antico racconto
mitologico la definisce orrenda, un altro, molto posteriore la vede bellissima.
L'autore sembra la colga nel passaggio, nel processo di trasformazione dall'uno
all'altro estremo, mantenendo così accennati i caratteri di entrambe le
versioni. Anche questa è un'opera che dimostra originalità e preparazione. Le sculture, nella maggior parte dei casi a
tutto tondo, sono frutto di evoluta sicurezza esecutiva e di certo non
distraggono l'attenzione fermandola su particolari o virtuosismi.
Per alcuni motivi
(due figure liberate in un solo blocco di pietra serena, le dimensioni, la
mancanza dei volti) “La Pietà” è somigliante a “Sotto la luna”. Certamente e in
prima istanza il riferimento è alla Madonna e al Cristo, però quelle teste che
non hanno i visi nascondono in verità i visi di tutte le madri e di quei figli
che hanno combattuto con le malattie o attraversato l'inferno della droga.
E c'è una statua,
come un monumento in scala ridotta (cm. 35X80), dal titolo “Schiavo in catene”.
Racconta il tronco possente di un uomo
in parte efficacemente scolpito nel rispetto dell'anatomia, in parte ancora
dentro la pietra informe. Non ha la testa, non ha la parola. E' prigioniero
della materia e del ferro, come molti di noi.
Tutte le
realizzazioni plastiche di Filippo Volpi sono subito comprensibili, anche se
appaiono più o meno lontane dai modelli e dal vero.
I motivi considerati,
infatti, rispondono ai ritmi interiori, allo stile dell'autore e l'arte sta
proprio in questa “deformazione”, come asseriva Matteo Marangoni. Perché
l'artista è libero, sempre. Anche di mostrare certi ingranaggi del cervello, come
nella scultura in pietra serena che è “L'uomo macchina” oppure di corredare la
testa e il volto, belli che sembra vengano dall'antica Grecia, dal titolo
“Crescere”, con listelli di marmo luminoso quanto insidioso.
Franco Ruinetti