Ruinetti al piccolomuseo di Fighille....visto da Man |
Il PiccoloMuseo è un punto di riferimento dell'arte
militante perché raccoglie il fior fiore degli autori nazionali che si sfidano
nei concorsi. “Piccolo” non è più. Sarebbe l'ora di ribattezzarlo col nome di
“Museo del Pozzo”. Un pizzico di bizzarria non guasta nel campo dell'arte.
Io, questa istituzione, l'ho vissuta e la vivo quando
la ripenso.
Mi intrattengo con i quadri esposti, con i ricordi, con le foto dei
cataloghi. Rivedo gli amici Bardeggia e Rinaldini, passati altrove, che
continuano a destare emozioni con i colori ora altisonanti, ora velati, ora
sotterranei. L'uno stimava l'altro, ma non poteva inchinarsi, erano ambedue
primi, con linguaggi, stili diversi. L'arte e certi artisti vincono contro il
tempo, non ne rispettano i confini.
Vedo quel quadro di Lima Amissao, persona mite, dal
sorriso acceso di luce. Rappresenta uno scorcio realistico disperso in un
ultimo giorno dell'anno triste e piovoso. Mi parla a larghe note della
nostalgia, che batte dentro, per la sua Africa assolata, giovane, amara.
Vado avanti, senza seguire alcun ordine né alfabetico,
né di merito, a braccio, con immeritate dimenticanze.
Incontro un dipinto di Nannucci, anche questo
liberamente figurativo. Racconta la fine dell'estate. Lo sento, ci sono dentro.
M'illudo che la bella stagione tardi a tramontare, ma le rondini sono partite
per un'altra primavera. E io sarei andato con loro. Non importa dove.
Belli quei ciliegi biancovestiti di Mario Massolo, che
non per niente ha vinto ripetutamente il primo premio al concorso di Fighille.
Cadono copiosi, a pioggia, i loro fiori accarezzati dalla brezza, sull'erba
dolcemente per non far rumore. Belli nel raccoglimento intatto trascorso da una
preghiera recitata con la mente.
Nel museo, che sarebbe più appropriato dire
pinacoteca, la maggior parte dei quadri si può inserire nell'ambito del genere
'figurativo', che non è speculare, ma personalizzato dalla singolare impronta
di ciascun artista. Un olio su tela di Sangalli, suggestivo, propone alcune
case di Fighille e sullo sfondo il monte, immersi in una atmosfera e distesi su
scivolate azzurre stemperate nel celeste. Questo lavoro mi rammenta l'episodio
di Cecco Beppe quando chiese ad un artista perché aveva fatto il prato azzurro
e quello spiegò che lo vedeva così. L'imperatore rispose che allora non doveva
fare il pittore. Ma non aveva ragione, come non l'aveva chi, molto dopo, parlò
di arte degenerata.
A volte capita che mi balzi in mente insistente quel
rosso ora intenso come brace accesa, ora commisto ad una nuvola rada, scandito
nel quadro in riquadri, di Jeanne Dettori, dal titolo “Mirage 9”. Non ha
parole, è un cosiddetto astratto, rappresenta, per me, un ordito musicale. C'è
il tamburo dal suono denso, cupo, che ha risonanze nel petto, mentre di sopra
volano a distesa le note del clarinetto. C'è sangue e vita.
Mi si presentano le donne. Ovviamente quelle attaccate
ai muri, dei dipinti. Sono sovente protagoniste. La vista indugia sul disegno
di un nudo sfacciato, ma vestito di venustà e di indifferenza. E' di Gianni
Mastrantoni. Il titolo non ce l'ha perché non ha importanza.
Eccole, quelle di Gianni Gueggia, sono la quintessenza dell'eleganza
formale culminante sulle dita semiaperte, articolate delle mani, sui menti
aguzzi, sulle piccole bocche. Sono Veneri celesti intoccabili e
irraggiungibili.
Mentre le donne di Gianni Gueggia si avvertono
concrete, sembra di averle incontrate da qualche parte. Risultano interpretate
da un talento che non si sofferma sui dettagli. Mani grandi, teste tonde. I
colori sono di uno spartito vigoroso. Le bocche appaiono chiuse eppure ti
chiamano e sorridono, chiedono amicizia. Strane figure. Si vorrebbe conoscerle
meglio.
Singolari le vele di Luciano Filippi. Salgono oltre la
tela, lassù in alto, trasparenti sospiri del colore. Sono la poesia del mare e
del cielo. Mentre il sole non tramonta sui paesaggi di Secondo Vannini, che
cantano “Romagna mia” a piena voce.
I quadri parlano a tutti, in tutte le lingue, ad
alcuni di più, ad altri meno. Importante è saper vedere, che, come asseriva De
Goncourt, è il lavoro più lungo.
Mi passa davanti un lavoro di Giovanni Cagili. Lo
fermo per una pur breve conversazione. L'ispirazione nasce dal paese di
Anghiari, alto sulla collina e nella mente. Sembra volermi dire che la verità
oggettiva è più bella quando si arricchisce con gli apporti della fantasia.
L'avvento della fotografia mandò in crisi la pittura,
ma fu un bene, da allora molti artisti del pennello si sono allontanati più o
meno dai modelli o soggetti. A metà strada tra la rappresentazione classica e
la piena libertà inventiva c'è anche Franco Cartia con “Le grandi finestre sul
lago”. Sullo sfondo si affermano decisi
i profili di alcune costruzioni, mentre sulla ribalta del primo piano insistono
motivi multiformi illeggibili. L'armonia cromatica unisce saldamente il tutto.
Ma cosa mi racconta questo lavoro? Mi suggerisce che è bello vivere, è bello il
mondo anche se, in gran parte, siamo immersi nell'inconoscibile.
E c'è Enzo Maneglia con i suoi “scatoloni”, le
vignette, le caricature, che ha sempre pronto lo scatto dell'umorista di razza.
Devo dire poco di lui perché temo, come i suoi politici, cardinali e altri
personaggi-pupazzi, d'essere preso per il naso e finire in un cassonetto per
venire smaltito.
Franco Ruinetti