Sebastian De Gobbis nasce a Beirut, in Libano, nel 1971 da una famiglia di origine veneziana. Una volta tornato in Italia, ancora
adolescente, da Venezia si trasferisce a Verona, per frequentare il Liceo
Artistico. Negli anni si accosta ad ambienti artistico-culturali diversi,
viaggia per approfondire la propria cultura e decide di dedicarsi interamente
alla pittura. Dal 1995 cura e allestisce mostre personali in varie gallerie italiane ed estere. Da alcuni anni protagonista nei piu' importanti concorsi di pittura italiani.
Cosi' parla della sua pittura Giorgio Falossi: "Una figurazione autentica e attuale quella di Sebastian De Gobbis, sorretta da un cromatismo quasi monocolore, un marrone che gioca con le ombre e si ingentilisce con la luce dei bianchi. creando oltre che lo spazio anche il tempo dell’attualità dell’esecuzione. Tendenza fauvistica quella del segno, per cui l’atmosfera gravita di impressioni silenti sino alla melanconia e, nel suo disporsi di interferenze e gradazioni, crea armoniose configurazioni".
Cosi' parla della sua pittura Giorgio Falossi: "Una figurazione autentica e attuale quella di Sebastian De Gobbis, sorretta da un cromatismo quasi monocolore, un marrone che gioca con le ombre e si ingentilisce con la luce dei bianchi. creando oltre che lo spazio anche il tempo dell’attualità dell’esecuzione. Tendenza fauvistica quella del segno, per cui l’atmosfera gravita di impressioni silenti sino alla melanconia e, nel suo disporsi di interferenze e gradazioni, crea armoniose configurazioni".
Questo invece un pensiero critico di Camilla Ugolini: "Entrare nella casa-studio di Sebastian è un po’ come accedere al
bateau-lavoir di Picasso e dei suoi amici. L’aroma del cafè e del quotidiano si
mischiano agli odori quasi impercettibili delle resine con cui Sebastian dà
volto ad un’impressione. L’impressione di uno sguardo incrociato con uno
sconosciuto. Sebastian cavalca l’onda dello sconosciuto, che non è altro che il
ponte fra scienza e arte. Tra i ripiani dello spazio che resta disponibile fra
i dipinti accostati l’uno accanto all’altro, si incontrano i libri, con le loro
parole che danno voce a ciò che Sebastian, come afferma, sa dire solo con la
pennellata. In primo piano, il Trattato della pittura di Leonardo che rimanda a
quel connubio fra pittura e scienza che nell’arte di oggi sembrerebbe perduto,
ma che in realtà persiste, seppur in forme diverse. Perché se i paradigmi della
scienza sono mutati, lo sono anche quelli dell’arte, e viceversa. L’uomo è
ancora fulcro del conoscibile, perché nell’uomo tutto l’universo si coagula in
piccola scala. Ma l’uomo è al contempo condensazione dello sconosciuto, utopia
continua, almeno per il tempo in cui il genere umano vuole resistere. Il tratto
nei dipinti di sebastian non è un tratto verista, scientifico nel senso moderno
del termine. La soggettività in arte e la sua fierezza sono giunte sino a lui,
e si vedono. La spatolata veloce, i contorni sfumati, il colorismo
espressionista, a volte pop."
Erede di una tradizione e consapevole, grato di
esserlo, sebastian sembra catturare quel momento in cui tutto si ferma e al
contempo ogni cosa danza intorno al vuoto. Come dirlo, questo vuoto? Non si
può, in verità, si può solo coglierlo, danzandoci attorno. Con parola poetica,
altrove, qui con il colore.
Ecco che
allora il tratto in un volto non può che perdersi quasi e farsi
pulviscolo o divenire più denso altrove, non importa. Quello ha a che fare col
divenire, con la mutevolezza delle forme. Ma ciò che resta, oltre questo o quel
punto colorato di una tonalità che non appartiene al realismo crudo della vita,
ciò che resta è la “rovina” dell’essenzialità. Lo sguardo triste di un volto di
donna e ciò che assorbe, che trascina, che cattura con forza, e intorno nasce
un momento fermo in cui tutta la superficie quasi si dimentica.
Tanto si dice dell’ispirazione in arte. Ma nessuno saprebbe
trasmetterla a chi non ne ha esperienza, a chi non ne è attraversato. E non
certo con la parola. Ispirarsi e ispirare contengono quell’attimo in cui
qualcosa di ineffabile entra e si ferma, per un lasso impercettibile di tempo.
Si ferma, ma è anche già li, pronto ad offrirsi.
E forse l’ispirazione non è che una salita che porta ad un
punto in cui tutto ciò che non conta muore e resta l’essenza, ciò che è. Allora
non importa che il volto che contiene, nasconde e rivela ciò che è sia quello
di un direttore d’orchestra o dell’avventore casuale di un ristorante.
Quell’essenza è di tutti, e prende colore. Senza particolari legami simbolici,
sebastian usa il colore come reagente dell’anima, che la svela, la ingrandisce,
la porta alla riconoscibilità. Quello sconosciuto, incontrato sulla propria
strada, diventa riconoscibile nel suo esser parte dell’essenza di ognuno. C’è
qualcosa di vero nel blu nel verde che colorano il volto, o nel giallo che
circonda gli occhi. Il vero d’altronde è la danza del mondo, che fa ogni attimo
diverso da altro.
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