DON GIULIANO
Era
benvoluto da tutti, don Giuliano e lui voleva bene a tutti, anche ai
più rossi, perfino quando li avevano scomunicati. Lo conobbi a
Pratieghi dove andavo una volta all'anno, a settembre, per cercare i
funghi, che altri raccoglievano mentre io non ne vedevo neanche uno,
ma, in compenso, nell'accogliente ristorante casereccio trovavo
sempre tagliatelle fatte con la sfoglia tirata a mano nella
spianatoia col matterello, condite con un sugo il cui sapore usciva
di casa con l'aroma dall'irresistibile richiamo. E poi trovavo i
crostini con maghetti e fegatini di pollo che, come quelli, li sapeva
fare solo la mia povera mamma. Li mangiavo con voglia e nostalgia.
Ma ho
deragliato e torno a don Giuliano. Che era un prete mingherlino
destinato a quella parrocchia tra i monti alla sorgente del Marecchia
da quando celebrò la prima Messa. Aveva il candore di un bambino. Lo
andavo a chiamare per offrirgli il pranzo e lui veniva, ma accettava
solo un goccio di vino annacquato. Parlava, seduto al mio fianco,
tenendomi la mano. E quello che diceva mi è restato a stampa nella
memoria.
Mi
raccontò che, all'età di sei anni, figlio unico, era rimasto orfano
di ambedue i genitori, che trascorse la fanciullezza, l'adolescenza,
la prima giovinezza nei seminari e in un convento. Gli si
illuminavano gli occhi quando ricordava sua madre come una lontana e
fuggevole apparizione della Madonna.
"Don
Giuliano, si è mai innamorato?"
Mi
strinse la mano. Ci pensò:
"Se
non vivessi d'amore non sarei un uomo, non sarei un prete. L'universo
intero, che è più grande di quanto lo possiamo pensare, non è un
mistero, è amore."
"Le
manca la famiglia?"
"Io
mi sento padre, fratello, nonno dei miei parrocchiani. Non mi manca,
anzi: la mia famiglia è numerosa. E si è allargata perché vado
anche nelle chiese viciniori, dove, purtroppo non c'è più il
prete."
Un
giorno mi portò a visitare la sua chiesa, che mi parve bella proprio
perché essenziale, francescana.
Poi ho
saputo che quella volta lo portarono di corsa all'ospedale di Arezzo.
Fu ricoverato in condizioni di salute preoccupanti.
Dopo
alcuni giorni di degenza insistette per tornare a Pratieghi, ma i
medici cercarono di dissuaderlo. Lui non si arrese, doveva celebrare
le funzioni del periodo pasquale. Allora firmò per essere dimesso
assumendosene la responsabilità. Quella firma credo che gli abbia
aperta la porta del paradiso, anche senza la bolla papale.
E'
stato sepolto nel cimitero locale, piccolo e ordinato giardino dei
morti. I parrocchiani lo hanno voluto nel centro in un'arca di marmo
a rilievo. Da lì può vedere la chiesa e benedire la sua grande
famiglia.
Io
sono tornato a Pratieghi dopo tre anni, solo per andare da lui perché
avevo l'impressione che, di tanto in tanto, mi chiamasse. Non per
altro motivo. Infatti, ormai, ho definitivamente rinunciato a cercare
i funghi e, dato che il medico mi ha prescritto una dieta severa, non
entro in quel ristorante dalla cucina antica, buona come l'aria e
l'acqua della montagna.
Don
Giuliano non aveva parenti consanguinei eppure, dopo tre anni dalla
morte, sul suo sepolcro, c'era un mazzo di fiori freschi.
Franco Ruinetti