TALALTRO
Era la mattina della prima domenica di
ottobre e andavo in macchina a Fighille per partecipare alle operazioni
dell'annuale rassegna d'arte quando, nei pressi del laboratorio di ceramica,
seminascosto dal tronco di una quercia secolare e da un roveto, intravvidi un
grembiule bianco. Pensai di conoscerlo, che fosse il pittore Tal dei Tali,
figurativo, che si era accomodato lì per dipingere la piana del Tevere tutta
distesa davanti, onde partecipare alla sezione estemporanea del concorso. Mi
fermai. Quando gli rivolsi il saluto e si voltò notai con sorpresa che non era
lui, era Talaltro, astrattista. Rimasi indifferente, per me era lo stesso,
conoscevo bene, da tanti anni, anche quel pittore.
“Ti nascondi? Hai paura che ti
vedano?”
“Guarda che angolo di mondo, è il
panorama del primo giorno della creazione, un incanto! Poi sei arrivato te...”
“T'ho rotto le uova nel paniere.”
Aveva piazzato saldo il cavalletto da
campo, stava seduto su uno sgabello scomodo, aveva a lato un tavolo, di quelli
apribili, con sopra tubetti di colori ad olio, pennelli e quant'altro, mentre
per terra giacevano, buttate là, un paio di tele bianche ed altre dipinte. Era
uno studio d'arte all'aperto.
“Il mondo ha dovuto fare tutto il giro
intorno al sole perché ci rincontrassimo.”
“E' vero, ci vediamo una volta
all'anno. Ma ancora fai l'astrattista?”
“E tu ancora fai il critico? E' un
mestiere inutile, cambialo.”
Talaltro è uno che scherza, è
simpatico, ma anche fumantino, perciò giudicai prudente non pigiare
sull'acceleratore. Mentre parlava con me guardava lontano, mi sembrava volgesse
gli occhi da un'altra parte, come fosse strabico e dipingeva. Stava stendendo
un velo di bianco poi insisteva ripassandolo.
”Quando vai in bicicletta guardi per
aria?”
“La bicicletta sa dove andare.”
Tacqui, mi piaceva fare lo spettatore.
“Parla pure, anche mentre ti ascolto
rimango concentrato.”
Rispettavo il silenzio per guardare la
nascita di un'opera astratta, anche perché non sapevo cosa dire; avrei voluto
insistere sull'irriverenza amicale, ma avevo paura di deragliare. Avevo stima
di lui, tanto che in un concorso perorai il valore di un suo quadro per fargli
ottenere il primo premio, ma ora dovevo andarci leggero.
“”Ma tu guardi il panorama? Non credo
che ti serva, non lo rappresenti, non lo dipingi.”
Posa la tavolozza e il pennello, tira
il fiato: uno sbuffo, mi guarda:
“Ce l'hai fatta a farmi lo sgambetto.
Quando te ne vai scegli una tela, non mi sono scordato che te l'avevo promessa.
Prendila, se la prendi volentieri.”
“Certo che la prendo volentieri, se
vuoi che te lo dimostri ne posso prendere due.”
“Ma sei matto? Non fare l'ingordo:
Vedi qua: questo bianco è bugiardo, lo devo indebolire per farlo scivolare nel
celeste azzurrino; quant'è bello e difficile laggiù il cielo, mentre vedi: i monti
vicini sono d'un verde pesto, mi vien da dire torbido, ma non è così...”
“Com'è?”
“Adesso il mio interesse è per la
vigna, questa prossima, di fronte. Le foglie sono nell'altalena tra la vita e
la morte, hanno l'ultimo respiro del verde che esala nel marrone per cadere in
terra dalla quale tutti veniamo e dove torniamo. Mi sembra di vedere qualche
riflesso d'oro, ma non ce lo metto perché non voglio, non ammiro il lusso.
Allora capisci? Io cerco il noumeno, non il fenomeno. Ma che te lo dico a fare?
Lo sai che cerco di enucleare l'anima e l'anima, anche di questo paesaggio, è
nei colori.”
Mi punta addosso gli occhi, rinfila il
pollice nel buco della tavolozza, prende di nuovo il pennello.
“Ciao, porta via un dipinto insieme al
mio saluto valido fino all'anno prossimo e - ricorditi di me, che son la Pia
-.”