PRIMO AMORE
Il mondo corre veloce e gli anni hanno sempre più fretta. Io no.
Allora mi siedo, affondo in una vecchia poltrona in un angolo della casa che mi
pare dimenticato, nella penombra, per fermare il volgere del tempo padrone
della vita e non della morte. Vorrei sgombrare la mente, fare pulizia, ma è
impresa ardua, faccio lunghi respiri, chiudo gli occhi, resto fermo, vorrei
diventare insensibile, come un mobile in soffitta. Ben presto m'arrivano
pensieri e idee da ogni latitudine. Mi vedo sotto le coperte, quando aspettavo
la befana, poi precipito a quando busserò alla porta dell'infinito, che si
aprirà da sola, senza le cellule fotoelettriche. Le immagini arrivano a galla,
si fanno largo a gomitate, sfollano, tornano di nuovo. Quella della Rosanna si
afferma, mentre le altre sfumano. Mi ritrovo al tempo della scuola media,
addirittura a quando frequentavo la prima classe. La ragazza aveva le labbra
rosse, come un bel fiore e gli occhi neri, ma quelli allora non mi dicevano
niente. Spesso, alla fine delle lezioni, la accompagnavo a casa e, al suo
fianco, mi sentivo più grande. Si parlava delle interrogazioni e dei compiti.
Ero contento come quando la mia mamma faceva le patate fritte e mi fregavo le
mani. Però era un'altra cosa: molto meglio. Allora non mi rendevo conto,
spuntava l'alba di una favola, di un giorno che non avrei vissuto. Era un
lunedì. Nel pomeriggio della domenica appena trascorsa avevo visto al cinema il
lungo bacio del protagonista alla sua amata. La scena mi aveva colpito: quello
ero io. Così, accompagnandola, le dissi:
“Ti devo dare una cosa.”
“Che cosa?”
Superato il portone di casa, che era un grande
palazzo, raccolsi tutto il coraggio e:
“Voglio darti un bacio.”
Mi guardò con quelle pupille nero china:
“Perché?”
“Ti amo, lo so da ieri.”
Glielo detti, le dissi 'Grazie', poi scappai. Fu un'esecuzione
disordinata, quel bacio non poteva essere professionale e, come la prima
sigaretta, non mi piacque. In seguito avevo voglia di rivederla, ma mi mancava
l'ardire perché ero fuggito senza dirle niente, avevo fatto una figura
meschina. Poi gli anni passarono in fretta, travolti dal
lavoro e dagli altri impegni, in primis quello familiare. Talvolta la
ricordavo, mi veniva la voglia di sapere come il tempo si fosse comportato con
lei, che certamente non avrà dimenticato quel bacio, primizia incosciente e
acerba. Quando mi sistemo più comodo nella poltrona, riemergo al presente e i
quadri sulla parete di fronte mi parlano di amici cari, perduti: Leporesi,
Rinaldini, Bardeggia, che continueranno a dipingere anche lassù, con i colori
dell'arcobaleno. Sono di nuovo errabondo, veloce come i lampi, mi ritrovo qua e
là, nelle lontananze estreme. Vado e vengo. Saltano all'attenzione avvenimenti
che non vorrei rivedere. Erano dettati dalle lusinghe del demonio. Schivo tali
motivi infelici. Il fluire della coscienza porta folate di foglie secche, Joyce
mi ronza nelle orecchie, fa sgambetti alla sintassi e alla logica. Ecco: mi
riappare il manifesto funebre con la sua fotografia. Le labbra non sono più quelle
di allora, ma rimango colpito dagli occhi che ora mi guardano dentro. Quel
bacio incerto è ancora in boccio: amore dolce limpido silente. E mi sono fatto
la convinzione, se è vero che nulla va perduto, che lei è là ad aspettarmi
dietro la porta del mondo nuovo, dove finisce la materia e il tempo non corre
più. Le sue membra sono solo luce, con i lampi delle pupille. Mi viene incontro
mentre porge la mano per accompagnarmi. Chissà dove.
Franco Ruinetti