I ricordi ad una certa età
(terza o, ancor più, quarta, così si definiscono i vecchi, con garbata
circonlocuzione eufemistica) s'accendono nella mente, prendono per mano,
rappresentano la retromarcia del tempo. Sono il ripasso degli episodi, vengono,
si spengono, e, quando meno te l'aspetti, tornano. Ecco, al proposito, la
Luana. Frequentava al Borgo la seconda liceo. Anch'io ero studente, ma più
spesso assente che presente alle lezioni. L'aspettai quasi tutti i giorni
d'aprile all'uscita dalla scuola cercando di mettermi in vista a cavallo di
quella Gilera vecchia, riverniciata di rosso fiamma e con i capelli impiastrati
di brillantina solida. Infine mi feci coraggio e le parlai. Fu subito carina e,
dopo una settimana fissammo un appuntamento per il pomeriggio. Venne.
Attraversammo in moto la valle piena di sole e di contentezza, quindi sostammo
nel piazzale davanti al Santuario di Petriolo e, mano nella mano, veleggiammo
dall'Alpe della Luna al Monte Catria. Entrati in chiesa, ci inginocchiammo. Ero
al centro del silenzio e del mondo.
Le sussurrai un nugolo di parole, che non
ricordo, mentre non ho dimenticato che ad un tratto le proposi: “Ci sposiamo?”
“C'è tempo”, rispose. Ma io insistetti: “Qui e subito, abbiamo come testimoni i
santi e gli angeli, che valgono più di qualche bellimbusto. Questo è un
matrimonio senza pranzo, né torta, segreto, ma per sempre”.
Ci abbracciammo commossi. Io
almeno lo ero profondamente.
“Va
bene, siamo sposi a nascondino”.
Qualche giorno dopo eravamo in
un praticello tra le ginestre accese di verde e di giallo su una sponda del
torrente Afra. Lei diceva con risolutezza che dovevo legarmi le mani.
“Sono
prigioniero d'amore, ma senza catene”.
Allora d'improvviso s'alzò,
tornò a casa a piedi e io rimasi come un baccalà. Così, solo dopo una
sessantina di baci (questo fu il mio rendiconto), finì il nostro matrimonio
indissolubile. Non tornai ad aspettarla all'uscita dalla scuola anche perché
fui centrato in pieno da un colpo di fulmine, con la coda di cavallo, nera come
l'inchiostro di china e come gli occhi dai luccicori improvvisi, che si
chiamava Laura. Dopo un breve corteggiamento e ripetute insistenze la condussi
al bar dove, pagando un gelato ed un caffè, dilapidai i miei averi, infatti io
non partecipavo proprio alla festa del boom economico. Quindi ci avviammo in
moto verso il Tevere. Volevo ripetere il sacramento a Petriolo. Per prepararlo
feci sosta a San Leo, nello spiazzo davanti al cimitero. Ma, quando m'avvicinai
e capì le mie intenzioni, che, in verità, non erano troppo spinte, mi sferrò un
pugno condito con parolacce. Ero impacciato, non sapevo come nascondermi,
mentre un uomo fermo sulla bicicletta, con un piede piantato per terra, ci
guardava muto. Feci fatica a calmarla e a restituirla al Borgo.
Questo fatto mi ferì e mi inibì
almeno per un paio di mesi. Il tempo, anche poco, guarisce certi malesseri, e
poi m'aiutò Charlie Chaplin perché incontrai, non rammento dove, un suo
aforisma: ”Un giorno senza un sorriso (di una ragazza) è un giorno perso”.
Infine mi imbattei in quella che sposai davanti ad un prete vero, tanto vero
che pesava un quintale e mezzo.
Questo matrimonio dura ancora,
cioè da una sessantina di anni. E' fuori moda, considerato che nell'era
corrente sono sempre di più le separazioni e le libere unioni. Io e mia moglie
abbiamo fatto tutte le battaglie, gli armistizi e i trattati di pace che si
trovano in un libro di storia.
Ma non ci siamo mai arresi.
Franco Ruinetti