Si cammina a
grandi passi verso la 36^ edizione della rassegna di pittura, che, di volta in
volta, ha sempre superato se stessa fino a conseguire un autentico
successo nazionale. Lo scorso anno, per il traguardo delle 35 edizioni, la Pro
Loco ha pubblicato un libro che racconta la storia del concorso nato e
cresciuto a dismisura in questa breve contrada. Io, vecchio frequentatore
di questo evento a scadenza annuale, ho spesso scritto delle note sugli artisti
concorrenti. Stavolta invece voglio parlare di alcuni protagonisti che non ci
sono più, ma ho avuto la fortuna di conoscere e spesso incontrare. Erano amici
che hanno lasciato un vuoto profondo.
Americo Casi inventò il concorso. Conoscevo questo
personaggio riservato, ma che aveva nella mente una fucina di idee, perché me
lo aveva presentato Italiano Panicucci, suo vicino di casa e mio amico di lunga
data.
Rivedo la sera di un giorno bollente, col
cielo coperto da nuvole spesse, basse, corrugate da qualche lampo lontano.
Eravamo in macchina.
“Oggi ho sudato per non far niente,
speriamo che venga a piovere.”
“Questi sono i giorni più caldi, del
termidoro!”
“Non fare il professore e speriamo che
non grandini. Se cade un rovescio d'acqua l'estate si rompe. Andiamo al
salumificio, tu non l'hai ancora visto.”
Le prime gocce grosse e rade si
schiacciavano sull'asfalto. Quando scendemmo dalla macchina sia Italiano che
Americo si lamentarono sollevandosi diritti in piedi a fatica. Erano colleghi
di mal di schiena. Entrammo in un grande locale.
“Qui, spiegò Americo, siamo nel
frigorifero. Avevo imparato la tecnica del frigorista dal Dindelli, che non era
decorato da titoli, ma valeva quanto un diplomato moltiplicato per un
ingegnere.”
C'era un odore acre, stimolante. Da una
parte, nella semioscurità, si intravvedevano pendere file sovrapposte di
prosciutti, dall'altra salami ed altri insaccati. Entrava il vento dalla porta
aperta. Gli impiccati restavano fermi, inchiodati nel vuoto. Quando tornammo
alla macchina aveva già smesso di piovere. Gli chiesi come aveva trovato i nomi
e gli indirizzi dei pittori invitati ai concorsi.
“Mi hai aiutato te.”
“Io!?”
“Li ho trovati nella rivista Praxis alla
quale collabori. Ora il concorso l'ho consegnato alla Pro Loco. E' cresciuto e
io non ce la faccio più. Se puoi dà una mano a quei ragazzi.”
Il tempo passa, si consuma, ma il ricordo
di Guerrino Bardeggia insiste, urge nell'assenza. Una volta mi
dette un pettirosso dipinto su una tavoletta breve, più o meno 20 cm per 15.
“Questo vorrei essere io, mi disse,
pensaci”.
Andavo con una certa frequenza a trovarlo
a Gabicce nella sua casa-laboratorio-museo. Se ritardavo mi telefonava.
Lui lavorava all'esterno e, se pioveva,
nell'ingresso poggiando la tela o la lastra di legno su un tavolo. Non usava il
cavalletto. Le stanze erano stipate di quadri accatastati con ordine. Si
passava a senso unico, come al supermercato.
“Vai
dentro, i cioccolatini sono sul tavolino, guarda quello che ti pare e poi
portami le tue riflessioni, quelle cattive, le altre non m'interessano.”
Continuava a dipingere e nel contempo registrava le
poesie che gli capitavano in mente. Lavorava a tempo pieno, senza domeniche, né
ferie. Esprimeva una creatività a getto continuo: sempre originale, sempre lui,
nel senso della continuità stilistica. Talvolta iniziava l'opera direttamente col
colore.
“Non c'è
bisogno della matita, il racconto è nel pennello.
Sfogliavo i quadri, andavo dalla “Genesi”
all'”Inferno”, dall'”Apocalisse” alla “Deposizione”, al “Crocefisso”.
Certi colori sembrava m'aggredissero; lo strazio di
corpi dilaniati, la bellezza e l'innocenza violentate erano la sofferenza del
mondo e di Guerrino, ma mi soffermavo anche sulla seduzione muliebre, su quegli
occhi con le luci dell'anima e su quei cieli così reali e così interiori.
Vedevo magmi cromatici che esplodevano in brandelli e scintille di verde,
azzurro, bianco, giallo, scomparivano nell'infinito del nero, si perdevano
nelle intonazioni del rosso. Il pettirosso ricorre spesso nella produzione
dell'artista. E' un'allegoria sospesa sulla fronte del dolore.
Giorgio
Rinaldini aveva lo studio
a Rimini, nella centrale Piazza Tre Martiri.
“Non fare
i nudi di donna, non li conosci!”
“Li
conosco e poi li sogno.”
Era bello scherzare con lui, amico per trent'anni,
fino all'ultimo. Aveva il cavalletto vicino alla finestra socchiusa anche
d'inverno. Indossava uno scialle fermato all'altezza del petto con uno spillo
da balia e calzava in testa una cuffia fatta all'uncinetto con fili di lana
bianchi e azzurri. Stringeva tra le labbra sempre lo stesso mozzicone di sigaro
spento.
“Perché non
chiudi quella finestra? Entra il freddo.”
“Entra
aria buona, si sente che hai fumato. Ora siediti, non andare via subito, sulle
pareti c'è il mio mondo, puoi viaggiare senza spendere.”
Oltre ad alcuni nudini, così li chiamava, fatti con
il vapore delle nuvole, c'erano quadri nei quali le velature cromatiche erano
trasparenti nel paese della poesia. Perché Rinaldini era un poeta del pennello,
riviveva intatti gli stupori della fanciullezza e si allontanava nei chiarori
della fantasia. M'è rimasto nella mente quello spicchio grande di luna che
trascorreva sopra le cabine della spiaggia, legato con una cordicella come un
palloncino tirato da un bimbo in corsa. E come dimenticare la fanciulla dei
fiori, tante volte dipinta eppure sempre diversa. Era un po' liberty, un po'
vera, dolcissima, quasi una favola, alba dell'amore.
“Torna
presto, ho pensato di regalarti un castello.”
Non sono diventato conte o marchese perché l'amico
artista non fece a tempo a dipingermi il maniero.
Franco Ruinetti