Lydia Brolli Maneglia
Proponiamo si seguito il bel testo critico che il prof. Franco Ruinetti ha pubblicato sul n.6 di Ariminum Nov-Dic 2014.
Iniziò a dipingere quando era giovanissima, andava
ancora a scuola. Frutta, fiori, panni stesi ad asciugare avevano tutte le voci
e le modulazioni dei colori, ma erano esercitazioni, canzoni intonate con i
timbri dispiegati della tavolozza. Questi lavori incontravano consensi e
incoraggiamenti, ma la Lydia non era soddisfatta. Lei, così estroversa, che
trova piacere nel coltivare le amicizie, apprese il piacere di immergersi nel
gorgo del silenzio per sfrondare i soggetti, gli argomenti da dipingere per enucleare
i motivi essenziali come ad esempio le risonanze delle luci e delle ombre in un
bosco, in una composizione floreale o anche in qualche paia di scarpe e
ciabatte apparse alla rinfusa in un angolo della fantasia.
Nella produzione s'incontrano con frequenza delle
persone che non hanno valore di ritratti perché l'opera di sintesi scava,
rappresenta l'interiorità, i sentimenti. Si possono vedere lui e lei, due
anziani seduti su un gradino, senza gli aloni della venustà, perché è certo,
così testimonia anche kandinskij, che la bellezza del soggetto non equivale a
quella del quadro. Le loro mani sono grandi. Vestono gli indumenti da lavoro.
Le teste un po' abbassate non lasciano vedere i volti, che non hanno importanza
perché i veri protagonisti dell'opera d'arte sono la dolcezza, l'affetto che i
sacrifici, spesso le privazioni, hanno temperato.
I quadri di Lydia, quelli della maturità, riescono
a stabilire un rapporto di confidenza con chi presta loro attenzione.
Talvolta si vedono dei lavoratori, come contadini o
pescatori e si capisce che l'autrice rappresenta sulla ribalta delle tele la
vita dura, la fatica che non ritiene di declamare con la grancassa dei
colori.
Mette conto soffermarsi sull'aspetto cromatico
caratteristico delle sue tele, che non sono certamente monocromatiche. In esse
si evidenzia un sicuro rapporto di continuità tra lo spazio vuoto e gli
argomenti protagonisti, uomini o cose. Ecco, tanto per stare nella concretezza,
che in un dipinto s'accende diffusa, uniforme, una tinta ocra che poi
s'addensa, increspa, si muove sfibrandosi verso il bianco, cede altrove ai
chiarori del giallo, per dare vita, in modo consequenziario, ad un personaggio
immerso nel suo lavoro quotidiano. Pochi colori, ma che parlano, suonano la
musica del tempo che scivola simile all'acqua del fiume, aprono miraggi
imprendibili come la poesia.
L'artista lavora di getto, non cede ai
ripensamenti. Il disegno è sicuro e non si attarda a cesellare i dettagli. Le
immagini, che, come sopra detto, traggono vita dallo spazio, vengono da
distante nelle tregue di proficue meditazioni. Levitano tra realtà e sogno.
Ecco: incontriamo un'adolescente, che ha trovato rifugio nella solitudine per
riposarsi e raccogliere i propri pensieri. Sembra detta sotto voce. Si presenta
con la consueta chiarezza del linguaggio figurativo, ma è anche labile, quasi
una visione.
Il passato è depositario della giovinezza e Lydia
lo recupera con pennellate rapide e volanti che lasciano strisce , segni,
macchie più o meno diffuse e leggere. Talvolta alcune opere, a prima vista,
possono sorprendere e apparire strane, ma poi chiedono partecipazione e parlano
di immagini complete quanto suggestive. Al proposito vale ricordare, tra vari
altri, un quadro con i candelabri, dove il verde prevalente ora ha echi che
sfumano nel grigio, ora lentamente svanisce nel bianco. Lo stesso dicasi a
proposito di certi dipinti con scorci silvani. Ad un primo impatto non si
comprendono, poi è come se s'illuminassero e quei movimenti cromatici diventano
erba, sottobosco, piante. Sono interessanti e piacevoli.
Le pitture di Lydia Brolli Maneglia, che per il
giusto equilibrio tra contenuto-forma rifiutano ogni esultanza cromatica e si
distinguono invece per discrezione, garbo, restano in mente perché nei termini
dell'originalità e con l'impronta dell'arte, di volta in volta, rappresentano e
trasmettono un sentimento che è di tutti. Quello della nostalgia.
Franco Ruinetti