venerdì 5 ottobre 2018

Pensieri e parole sul Premio Fighille....negli anni

Tutti gli anni, ai primi di ottobre, quasi sempre, il tempo è bello e l’estate dà l’impressione di invadere il domino dell’autunno. In pieno giorno suona ancora la grancassa d’agosto, ma di sera si sentono gli anticipi di novembre. 
Sulle prode delle stoppie, a mezza costa della collina, davanti ad un pollaio o sotto il cielo di Petriolo, sparsi qua e là, s’incontrano i concorrenti con i loro cavalletti da campo, che lavorano. Sono quelli dell’estemporanea, la sezione del concorso piu’ viva e vera, che non nasconde trucchi. E’ interessante fare un giro per soffermarsi con loro.
Le conversazioni talvolta prendono strade curiose. Ecco: un pittore, alto come un palo della luce, borbotta contro la nuvolaglia che copre il Catria, dove, come osserva Dante “i troni assai suonan piu’ bassi”. Un altro, piu’ in là, sul ciglio della strada, ha la bocca impegnata. Tiene un pennello stretto tra i denti, fuma, parla con una signora.
Non manca il contestatore. E’ mancino. Come Leonardo, ma salta all’occhio che, con lui, non ha nessun tipo di parentela. Afferma che a Fighille l’arte alta (certamente allude alla sua) non la sanno vedere e la giuria del concorso dovrebbe cambiare mestiere. Per non fare danni. Chissà perché partecipa, meglio non indagare.
Un pittore è salito sulla terrazza di una casa ancora in costruzione. Sul parapetto c‘è l’apparecchiatura di boccette, vasetti, pennelli e stracci sporchi. E’ lassu’ per vedere fuggire i campi nella pianura. A perdita d’occhio. Il lavoro, non ancora finito, è sorprendente. L’autore è riuscito a trafugare i colori e la luce al giorno per concentrarli nello spazio breve della tela.
Il mattino è avvolto dal cielo azzurro con sentore di trasparenze dorate. Forse di fuori non si vede, ma tutti si è giovani. 
I monti formano il grande abbraccio della valle. Nella cui culla, incastonata nel silenzio e nel verde della campagna, si distende Fighille, dove la vita, come una volta, non sembra aver fretta.


C’è un artista vicino ad un greppo, sotto l’ombra fresca dei pioppi. E’ molto noto. Seduto di fronte al cavalletto guarda la tela bianca, ancora muta.
“Oggi il talento è in ferie?”
“Sto pensando che le muse hanno delle invalidità. Come faccio, ad esempio, a dipingere la musica della brezza quando intona i violini delle fronde, come faccio a far sentire le pene d’amore o il fragore di una cascata del torrente? La pittura è afona. Posso ripetere un flash del tramonto verso Caprese, ma non accompagnare pittoricamente il passaggio del giorno, che non mi fa pensare alla fine, (la morte non esiste, non c’è) ma alla vita che continua anche dopo, al di là dei monti, all’eternità della luce e dello spirito. Non posso. La pittura è statica, bugiarda, blocca l’ansia e la verità del divenire”.
“Osteria! Sei un filosofo. Queste riflessioni ti porteranno all’astrazione”
“Certamente no. La musa dell’astratto, spesso, ha un altro tipo di invalidità. E’ scema”
Un altro artista ha quasi terminato un quadro sovrabbondante di bozzetti che insistono su una distesa di campi: buoi aggiogati all’aratro, sul solco, col bifolco, anfore e piatti, una chiesa, fornelli, padelle, ciacce fritte e altro ancora. In un angolo della tela si vedono alcuni pittori al cavalletto.
“E’ un lavoro ricco di motivi. Non hai dimenticato niente”
“S’intitola La mia Fighille. Mi sono nascosto dietro questa siepe per ascoltare il silenzio. Poi sei arrivato te e la favola s’è rotta. Ho dimenticato il pozzo. Non sono soddisfatto del lavoro che ho fatto. Stamattina, sotto questo bel sereno, l’arte è andata a spasso”.

Franco Ruinetti